Venerdì, 19 Aprile 2024
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DISGRACED, per un’analisi identitaria e non solo

Recensione dello spettacolo Disgraced andato in scena dal 6 al 18 marzo presso il Teatro India di Roma

 

Disgraced, pièce teatrale vincitrice del premio Pulitzer 2013, è certo intriso di contemporaneità, pur trattando un materiale dalla storicità incandescente, che, come perso in un tempo meticcio, sfumato tra il ieri e l’oggi, riflette i propri contrasti e le sue sfumature anche nello spazio, tanto asettico quanto universale.
Ayad Akhtar, americano di origini pakistane, autore del testo, sviscera i suoi personaggi, quasi il suo fosse un meticoloso intervento chirurgico, un’estirpazione biologica, ideologica, che scava nel profondo dell’essere umano per sradicare quella contraddittorietà che non conosce paese d’origine, colore di pelle o fede religiosa, ma che uniforma tutti, indistintamente, incluso il pubblico, autentico baricentro di uno spettacolo che si muove lento e attento dal palco alla platea.


L’identità dei protagonisti, così come l’intera struttura del testo, è uno scheletro di opposizioni binarie, che, apparentemente divergenti, trovano in questi corpi un punto di incontro e, dunque, vi si impiantano dentro nell’attesa di esplodere. Il dramma interiore di Amir è, ad esempio, una forzata, perenne e non riconosciuta oppressione delle proprie origini, di un Islam non desiderato, che nega in ogni suo gesto e pensiero ma che gli resta comunque, irrimediabilmente, stampato in faccia. Un flagello che lo perseguita persino tra le mura domestiche, all’interno delle quali si destreggia la moglie Emily, newyorchese, pittrice di successo, che baratterebbe con piacere i propri natali con quelli del marito pur di sentirsi parte di quella bellezza di cui lascia segni grafici ovunque, in ogni suo dipinto. Il torbido conflitto interno che attanaglia Amir e che risucchia a sé il suo intero mondo senza che se ne accorga, pare, però, riuscire a dissimularsi tra le quotidiane questioni della vita, sin quando non si scatena nel corso di una cena, alla quale sono invitati quelli che si dimostreranno poi essere i primari responsabili di un climax di tensione che svela tutta l’ipocrisia dei personaggi. Isaac, gallerista, esperto d’arte e felicemente ebreo, incalza Amir, lo spinge, spalle al muro, con la sua forbita eloquenza. Le sue domande ciniche, di pari passo ai commenti pungenti della moglie afroamericana Jory, mettono alla prova Amir, rivelandone sprazzi di doppiezza che, come fiammelle acerbe ma scottanti, si diramano per poi sopirsi improvvisamente con qualche battuta e un sorso di buon whiskey newyorkese.
Alle scintille basta poco per propagarsi in incendio, specie se ad alimentarle vi si aggiunge legna di buona qualità, ed è difatto proprio ciò che accade quando, al dissidio socio-politico che si manifesta in un sinistro alternarsi di asserzioni e ritrattazioni, si vanno a sommare nuovi vasi di Pandora, che, scoperchiati, portano la situazione verso picchi insostenibili e travolgono la scena con funesta pulsione.
Il ritmo incalzante, crescente, che contraddistingue il testo di Akhtar, è manipolato con abilità dagli attori, che permettono al pubblico di godere di una scrittura complessa e articolata, senza correre mai il rischio di perdersi nel buio oblio della noia, con una convita menzione d’onore all’interpretazione di Francesco Villano, burattinaio di un Isaac gestito con sapiente maturità e grande spessore, padrone di quei silenzi che sono l’anticamera del pensiero e che si dissociano da una recitazione, quella del restante cast, forse troppo irrealisticamente serrata.

 

Giuditta Maselli
20 marzo 2018

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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