Emanuele Salce: Confessioni di un orfano d'arte

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Intervista ad Emanuele Salce, in scena al Teatro Brancaccino dal 21 al 24 gennaio 2016

 

Dal 21 al 24 gennaio 2016 è in scena al Brancaccino con uno spettacolo dal titolo "Mumble Mumble", onomatopea che nel linguaggio dei fumetti sta ad indicare l'essere "assorto". Perché questo titolo?

 

"Mumble Mumble" è un soprannome che avevo quando ero ragazzino, un suono onomatopeico che in inglese sta ad indicare un bofonchio, un borbottio, un parlottio incomprensibile che generalmente uno fa quando parla dentro di se, quando rimugina. A me capitava e a volte e mi appellavano con questo nomignolo che è anche la partenza, il riferimento d'inizio di questo racconto che si snoda attraverso due, tre episodi della mia vita.

 

Come ha influito essere "orfano d'arte" sul suo rapporto col teatro e lo spettacolo in generale?

Essere orfano è una condizione a se stante, nel mio caso figlio di un artista e figlioccio di un altro. Per un lungo periodo della mia vita è stato un deterrente, mi sono tenuto ai margini di questo mondo svolgendo altri lavori, soltanto in tarda età, non so se a maturità raggiunta o a follia dilagante, ho scelto di approcciare a questa professione, più a scopo terapeutico, l'ho fatto per me per confrontarmi con me stesso, il confronto con gli altri sarebbe stato schiacciante. L'ho fatto per cercare di sbloccare alcuni miei meccanismi. In questo senso è stato davvero molto terapeutico e da questo punto di vista ha funzionato, è stato a dir poco salvifico.

 

Com'è lavorare e condividere il palcoscenico con Paolo Giommarelli?

E' una fortuna. Paolo è un amico nella vita e bravo collega nel lavoro. Pensare che quando l'ho chiamato l'ingaggio era per una serata soltanto. Questo spettacolo, infatti, nasce per una serata in un teatro privato che poi per varie vicissitudini non si è mai fatta; qui nacque la proposta di un altro impresario di farlo all'interno di una piccola rassegna e da lì prese forma la piccola fortuna di questo spettacolo che va avanti oramai da cinque stagioni con grande apprezzamento e affetto da parte del pubblico. Lavorare con Paolo è il piacere di lavorare con un collega stimato, con un amico col quale tutte le sere lavorando ci ceselliamo cercando di migliorare quella parte là, quell'altra...insomma è una convivenza facile ed per certi aspetti è meglio di una moglie.

 

Nel titolo si parla di una "confessione", uno spettacolo intimo e personale, quindi. Può anticipare ai nostri lettori che aspetti della sua vita/carriera andrà a sviscerare?

Fondamentalmente racconto due episodi che sono legati alla mia vita, ossia il giorno in cui "quei due" di cui poc'anzi se ne sono andati. Li racconto con il distacco legato al tempo che è passato e all'elaborazione che ho fatto di questi due lutti riguardando il tutto con l'occhio del tempo presente. Riandando indietro si colgono degli aspetti che, quando si è immersi in quella realtà, vuoi perché sei iperprotetto dal dolore o da te stesso per sfuggire al dolore, lì per lì ti sfuggivano ma che hai demonizzato. Il corteo che si crea in queste situazioni intorno e dietro il carrozzone funebre o la gente, che devo dire, si comporta in maniera abbastanza surreale, se riletti con la lucidità che si ha a lutto elaborato assumono tutt'altro aspetto. Quindi, tornando a noi, racconto questi due episodi che sono anche uno spaccato della nostra Italia e delle nostre famiglie, di un certo modo di comportarsi e di essere, del modo in cui crediamo di doverci comportare e delle cose che crediamo di dover dire...insomma un po' tutte queste siutazioni molto "meccaniche" del costume sociale italiano. In ultimo racconto un altro episodio che non centra apparentemente quasi nulla con i due precedenti, molto risibile ma in realtà tragico, perché cerco di drammatizzare e funziona benissimo perché tale è. Confesso quindi impudicamente senza essere mai autocelebrativo i miei primi quarant'anni. E' un modo di ridere della propria condizione, di sdrammatizzarla, e anche di togliere quell'apparente gabbia dorata che c'è attorno ai figli d'arte; un racconto molto sincero e onesto in cui si affrontano tutte queste cose, irridendo certi luoghi comuni.

 

Parliamo di lei. Dopo essersi diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia inizia un'interessante lavoro come documentarista ma dopo un po' inizia a fare l'attore con altrettanti buoni risultati, cosa l' ha portata a passare "dall'altra parte"?

Inizialmente verso la fine degli anni '80 frequentai il Centro Sperimentale di Cinematografia e a inizio anni '90 mi diplomai in regia, feci per un po' l'assistente e poi girai dei documentari industriali perché era il primo lavoro che mi avevano offerto. Dopodiché ho preso una grossa pausa di riflessione perché non ero convinto di questa scelta e come dicevo all'inizio "il passare dall'altra parte" è stata una necessità interiore alla fine del mio percorso di ricerca, che non si è mai fermato: ho fatto l'assicuratore, un corso per diventare pilota, mi sono iscritto a una facoltà universitaria per finire poi a farne un'altra. Ho cercato di non valutare per scontato che uno dovesse fare la stessa professione dei genitori che anzi è forse sconsigliabile in quanto non c'è alcuna prova che si erediti il talento di chi ha calcato i palcoscenici teatrali ed ha lavorato sui set cinematografici. Quindi dopo aver a lungo errato e cercato sono approdato anche alla recitazione, ma più per il completamento di una ricerca intima, per cercare di portare a compimento un percorso in cui sicuramente c'era una parte di me che temeva il confronto con queste figure e che pensava gli sarebbe stata preclusa questa professione solo per la grandezza e i risultati così alti ottenuti dai propri padri. Volevo provare a fare un percorso più o meno indipendenti senza privarmi della possibilità di poter capire cosa potesse significare per me fare questo lavoro ed oggi, così, ne sono soddisfatto.


Vuol fare un invito ai nostri lettori a venire a seguirvi al Teatro Brancaccino questo fine settimana?

Se volete ridere in un modo diverso e se volete anche confrontarvi con voi stessi attraverso un'altra persona che alla fine parla (anche) di voi, perché per molti aspetti esprimiamo quello che è il nostro mondo interiore. Se volete fare una riflessione ed essere anche sorpresi, potete correre il rischio di venire al Brancaccino. Io lo andrei a vedere il mio spettacolo; poi ho notato che la gente è molto intimorita dal titolo, si spaventa perché significa quasi nulla ed eventualmente ti lascia l'eco di qualcosa di noioso quando in realtà è assolutamente l'incontrario. Chi poi ha il coraggio di venire ne viene sempre premiato, ne esce soddisfatto; questa è l'esperienza che ho raccolto in questi anni che ho fatto lo spettacolo, mi sento sicuramente d'invitarvi, garantisco io.

 


Fabio Montemurro

21 gennaio 2016