Xenofilia: essere stranieri a sé stessi. La strana storia di un alieno e Margherita.

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Recensione dello spettacolo Xenofilia in scena al Teatro Planet dal 22 al 24 gennaio 2016

«Passing stranger! you do not know how longingly I look upon you,

you must be he I was seeking, or she I was seeking (it comes to me as of a dream)»

(Walt Whitman, To a Stranger, Leaves of Grass, 1900)                

 

L'inizio di Xenofilia è dei più classici per chi sia un amante dei film di fantascienza: una ragazza, un incidente stradale, l'incontro con un essere non umano, probabilmente un alieno atterrato male.

Tra i due si crea uno strambo e difficoltoso rapporto, fatto di tentativi (e fallimenti) di comunicazione: da un lato Margherita, ragazza infantile e viziata, assetata di amore (Eleonora Gusmano); dall'altro l'alieno bianco e allampanato, occhi nerissimi, ali a ombrello, a metà strada tra uno spettro, una versione tenera di Pazuzu e un fan di Marylin Manson (Lorenzo Guerrieri). Margherita si prende cura dell'alieno (facendone però anche il capro espiatorio dei propri malesseri), come se fosse un bambino o un piccolo animale, sperando così di colmare il suo bisogno di protagonismo e di sentirsi centro del mondo, mentre l'alieno faticosamente si impegna a imparare la lingua umana.
L'alieno ha poi un talento particolare: indossando o toccando vecchi oggetti acquista la parlata e la personalità dei vecchi proprietari di quelli. Eccolo dunque diventare (bravissimo in questi cambi di voce e tono il trasformista Guerrieri) il compagno di scuola di Margherita, innamorato però della sua compagna di banco, oppure il padre, la nonna, il professore di cui Margherita era innamorata, per raccontarci con questo escamotage qualche particolare in più sulla solitudine e sulle ferite della ragazza.

Alternando un registro comico e grottesco a contrappunti più malinconici, la storia giunge al colpo di scena finale che ci svela la ben più triste e lugubre realtà in cui l'alieno altri non è che uno psicopompo, o angelo della morte.
Il senso di tristezza è acuito dalla scenografia, consistente nel mucchio di scatoloni parzialmente aperti del trasloco, in cui Margherita è impegnata, destinato a rimanere sospeso come la vita di lei.
La Gusmano riesce perfettamente a rendere credibile il personaggio di Margherita, post-teenager sospesa tra egotismo, insolenza e infantile bisogno di attenzione, e offre la spalla alla potente performance di Guerrieri: presenza scenica in qualche modo imponente (merito senz'altro delle zeppe insanamente alte, e del palco minuscolo del Planet) nonostante la magrezza ai limiti dell'anoressia, l'attore sorprende per la sua capacità di adattarsi con tutto il corpo alla lingua aliena fortemente gutturale e aspirata, attraverso un impressionante sforzo di diaframma che a tratti sembra far schizzare via la gabbia toracica.

Lo spettacolo offre molti momenti memorabili surreali e trasognati – come il punto in cui l'alieno mostra a Margherita un pianeta lontano, tutto giocato sull'immaginazione – spesso sottolineati da una colonna sonora forse troppo invadente, sebbene lasci con la sensazione che il bel soggetto non sia stato portato al massimo delle sue potenzialità.
È comunque una bella e poetica, e originale, riflessione su cosa può voler dire “altro” o “straniero”, in un periodo storico in cui questi termini si stanno ahimè ammantando di significati negativi e minacciosi, e “xenofobia” sembra essere ormai un lemma dominante nel nostro vocabolario. “Xenofilia” dunque? Sì, purché lo straniero – e l'”altro” tout court – non diventi un semplice riempitivo dei nostri vuoti, non sia piegato alla funzione di palliativo per i sintomi dei nostri mali più profondi.
Dice il nostro alieno in un punto: «Devo imparare la tua lingua per metterti di fronte a te stessa!».
Perché bisogna sempre ricordare che confrontarsi veramente con l'altro significa innanzitutto avere il coraggio di confrontarsi con sé stessi.

 

Mario Finazzi
25 gennaio 2016