Sabato, 20 Aprile 2024
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Gennaro D’Avanzo e i 100 anni del Teatro Villoresi di Monza: chi va a teatro chiede di emozionarsi dal vivo

Parla l’impresario e direttore artistico Gennaro D’Avanzo: quarantadue anni di vita di teatro ed attualmente direttore artistico del Teatro Villoresi di Monza, dopo un sofferto epilogo del trentennale rapporto con il San Babila di Milano. Ma dalle sfide difficili D’Avanzo ricava idee concrete figlie dela sua immutata passione.

 

Ripercorrendo il suo itinerario artistico emerge una grande vitalità, che sembra  alimentata proprio dall’esser sempre rimasto in gioco...

Sono sempre stato fedele al motto, ereditato dai miei genitori, "se non fai niente è inutile campare". Sono in pensione da quattordici anni e potrei scegliere una vita diversa ma, come diceva Chechov, il teatro non ti manda mai in pensione, altrimenti non avremmo avuto Franca Valeri e Gianrico Tedeschi che ha lavorato fino a novantotto anni. Le sfide caricano sempre e il Teatro Villoresi, che era chiuso da due anni, festeggia il centenario quest’anno. Su questo teatro sono passati i più grandi attori italiani, come Vittorio Gassman, Mariangela Melato, Enrico Maria Salerno, che, prima di approdare alla grande città passavano da Monza. Se ho accettato di dirigere il Villoresi, dopo le vicissitudini del San Babila, è perchè ho voluto mettermi alla prova: il teatro ha bisogno, oltre che di giovani, anche di idee e di esperienza. Sono l’unico in Italia ad allestire programmi a percentuale: molti teatri non stanno aprendo perchè non rientrano dei costi del cartellone culturale che vorrebbero allestire. Io propongo Sul Lago Dorato e faccio comunque cultura, perchè la trama è imperniata sul rapporto genitori- figli. Non è necessario arrivare a Brecht per compiere un’operazione di spessore. Il teatro pubblico quando si approccia alla programmazione riesce rapidamente ad allestire un cartellone: questo sarà il risultato tra il budget disponibile e la spesa per le singole compagnie. Ma quando si segue un modello a percentuale, la pianificazione diviene più articolata e richiede particolare attenzione nella scelta della direzione che si vuol prendere. Dopo quarantadue anni di esperienza, le compagnie che aderiscono alla mia proposta lo fanno per fiducia sapendo che, anche quando non ci guadagneranno, non andranno comunque a perdere. Io ho fatto sempre teatro privato costruendo da zero: ci chiamano privati perché ci siamo “privati” di tutto.

Lei ha attraversato diversi momenti del teatro Italiano. Qual’è l’elemento che sente carente nel teatro attuale e che riprenderebbe volentieri dal passato?

Sicuramente la volontà e la passione degli impresari di una volta: erano realmente amanti del teatro, come Ardenzi o Milazzo, con quest’ultimo che produceva Vittorio Gassman e Paolo Stoppa. Le grandi compagnie venivano prodotte dai teatri privati mentre quello pubblico era considerato di seconda fila. Senza i grandi impresari non ci sarebbero stati  Enrico Maria Salerno o Paola Borboni che infatti non ha mai fatto teatro pubblico. Mi manca la gioia dell’impresario che girava l’Italia: si presentava al teatro il pomeriggio della prima e amava sporcarsi le mani litigando magari anche con gli attori. Erano persone competenti ed amanti del loro mestiere: oggi l’equivalente sono figure spesso estranee al mondo teatrale che solamente grazie alla disponibilità economica riescono a creare una compagnia. Ma il teatro non è un’azienda normale e non ti fa diventare ricco, perché se fai uno spettacolo al giorno e quel giorno piove, non c’è incasso. Coloro che oggi escono e vanno a teatro chiedono un’emozione dal vivo che la televisione non può dare. Un sipario che si apre non si può chiudere, mentre con la televisione puoi mettere in pausa o rivedere più volte la stessa sequenza. Chi va a teatro ha bisogno del contatto vero, la cui mancanza l’abbiamo sofferta durante il lockdown.

 

Esiste anche una ricchezza che oltrepassa quella del soldo e si può alimentare grazie al teatro.

L’uomo per vivere non ha bisogno di tanto. Diventare ricchi e non potersi “stendere” non serve a nulla. Io vivo della mia passione che nessuno può togliermi. Per molte persone ricche è vitale stare sulla cresta dell’onda senza avere tempo per riposarsi nè di fare qualcosa di concreto per gli altri. Io preferisco ogni due giorni imparare una poesia di  Eduardo o di Trilussa piuttosto che attivarmi a tutti i costi per rincorrere il denaro. Ho iniziato a lavorare a quindici anni e a venticinque ero già direttore. Ho inventato gli abbonamenti a posto fisso che ora sembra un fatto acquisito ma c’è voluto qualcuno che si facesse venire l’idea. Oggi è importante educare le giovani generazioni, quelle che nascono già col cellulare in mano, a ciò che c’era prima. La cultura è anche questa. Il teatro San Babila sarebbe dovuto diventare il magazzino dell’Upim perchè con quarantotto abbonati doveva necessariamente chiudere. Con la mia gestione è arrivato, in dieci anni, a dodicimila abbonati ed essere il primo teatro d’Italia. Ero semplicemente me stesso: sapevo sorridere e quando sbagliavo chiedevo scusa perchè fare teatro vuol dire anche scusarsi se proponi uno spettacolo che non piace. Seguendo l’esempio dei grandi vecchi, ho cercato di dare possibilità ai giovani lasciando che fosse poi il pubblico a decidere.

 

Il Villoresi colpisce per la grande versatilità del proprio cartellone, divenendo il martedì anche cineforum. È la dimostrazione che rialzare la testa si può senza affezionarsi troppo all’inerzia del momento?

Durante il lockdown sono sempre uscito, ovviamente con la mascherina, per andare al mio teatro. La polizia mi ha fermato quattro volte e ho spiegato che se anche il teatro era chiuso la cultura non lo era: al Villoresi, infatti, ho tenuto con i miei abbonati lezioni on line di dizione. Il 7 aprile, in pieno lockdown, scrissi un articolo in cui dichiarai con forza che il 10 ottobre avrei riaperto il teatro: passai per irresponsabile ma non posso pensare di chiudere per due anni quando invece ho il permesso di andare a comprare le sigarette. Convivere con il virus è possibile, rispettando le norme di sicurezza. Ma purtroppo la cultura in Italia non è considerata e solo il tre per cento della popolazione italiana va a teatro. Nessun Comune sembra intenzionato a farsi venire un’idea per incentivare la cultura. Nessuno è venuto a chiedermi come facessi a riaprire e a proporre dieci spettacoli di qualità differenziandomi da coloro che rimangono fermi. È il discorso di prima: attraverso la mia continua attivazione riesco a trovare il senso della mia esistenza. Dire la verità ed essere convinto di ciò che sono rappresentano i due perni fondamentali della mia vita.

 

Quali elementi dell’esperienza del San Babila possiamo ritrovare al Villoresi?

Quello che ho costruito al San Babila mi è stato possibile proporlo anche al Villoresi in termini di amore, bel teatro, accoglienza e disponibilità. Analogamente al San Babila, anche al Villoresi ho proseguito l’iniziativa della cena del sabato sera. Dopo la prima, infatti, è possibile per il pubblico cenare al ristorante insieme agli attori ed interagire con loro, seguitando così l’esperienza di teatro. Ripropongo quindi l’idea di casa: il Villoresi deve essere casa dei monzesi e non casa mia.

 

 

Simone Marcari

5 ottobre 2020

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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