Sabato, 14 Giugno 2025
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Narni città teatro”, dal 4 all’8 giugno la VI edizione del festival del festival che quest’anno propone il tema “Giocare la vita”.

 

“Perché vivere è un arte audace, un equilibrio fragile tra ciò che siamo e ciò che desideriamo diventare…”, questa una delle frasi  di presentazione del tema di quest’anno nel “Narni città teatro”, dove i due organizzatori Davide Sacco e Francesco Montanari (coadiuvati dall’esplosiva Ilaria Ceci), oramai alla loro sesta edizione, puntano lo sguardo sul senso del gioco che si compie nel vivere, dei rischi del cambiamento, di quello stato liminare di attraversamento delle cose, che poi è lo stato perpetuo in cui opera il gesto teatrale. Una realtà sospesa, eppure reale, che il festival di Narni incarna perfettamente, per la sua essenza, in quanto territorio di sperimentazione artistica ricca di eventi, nel centro di una realtà territoriale, al “centro” della nostra penisola. Ci sembra che questo festival nel corso degli anni si stia arricchendo sempre più non solo di popolarità, divenendo un'altra delle manifestazioni culturali di spessore della regione, ma che stia assumendo sempre più una logica di intenti, un nesso di significato che rende tutti gli eventi connessi in un filo “SOSPESO” appunto, che ha una logica ben precisa. Qui un piccolo report degli spettacoli che abbiamo seguito per voi. 

Venerdi 6 giugno, ore 20.30, Teatro Manini. “Storia di un cinghiale” scritto e diretto da Gabriel Caldéron, con Francesco Montanari

Uno spettacolo che dal suo debutto a Milano a marzo, fa parlare di sé, con un tale entusiasmo da aver rinvigorito anche i più disincantati. Ebbene, qui la messa in scena merita davvero tutto il successo che ha. Esplosiva la presenza di Francesco Montanari che in un monologo interminabile mostra delle capacità quasi atletiche, anzi, oserei dire olimpioniche. Potrebbe colpire anche solo la tenuta della memoria di un testo, c’è da dirlo, assai complesso nella composizione narrativa, ma poi ad essa si affiancano i frequenti cambi di costume, la movimentata relazione con la scenografia e gli oggetti di scena, interattiva e mai statica e non per ultimo una serie di difficoltà “fuori contesto” che la performance di Narni ha presentato e che l’attore ha risolto con una sicumera davvero invidiabile. Non avevamo dubbi sulla bravura di Montanari, ma un’operazione del genere prevede una tale centratura ed equilibrio che ci ha questo sì, assai sorpreso. Ma il lavoro di Montanari è ovviamente un’opera ben riuscita impastata sicuramente in un’argilla di ottimo valore. Il testo e la messa in scena sono due gioielli. “Storia di un cinghiale”, che ha come coda di titolo “Qualcosa su Riccardo III”, non è solo un omaggio a Shakespeare, ma al teatro tutto, al su senso, alla sua complessità. La difficoltà di un  l’attore  che dopo ruoli marginali  riceve l’incarico della vita: interpretare Riccardo III, che però incorre in una serie di difficoltà nella messa in scena della piece che lo portano a esacerbare un dolore forte nei confronti di un mestiere così complicato, che lo incarnano, pur non volendo,  nel duca di York. Tante volte chi vi scrive parlando con gli attori ha accolto esattamente la stessa sofferenza che non si può davvero spiegare, se non semplificandola. Ecco, questo spettacolo probabilmente incarna davvero quello spazio liminare del “giocare la vita”, quella SOSPENSIONE che è il tema del festival. E probabilmente la prestazione di Montanari è la voce, l’urlo di tutta una categoria di professionisti che vivono esattamente quel tormento lì, forse questo è il motivo per cui questo spettacolo ci è parso finalmente, così autentico. 

Venerdi, sabato e domenica (ogni 20 minuti), Mercato Coperto.  “The companion”

Spettacolo per cui serve una prenotazione anticipata, uno spettacolo dove si entra da soli e che si svolge in circa venti minuti. Uno spettacolo in cui una gentile signorina ti accompagna verso l’ingresso di un ascensore, ti dice di scendere di un piano; uno spettacolo in cui entri in una stanza vuota, da solo, dove c’è un cane robot istallato più o meno nel centro della stanza. E’ ancora uno spettacolo? Direi di no, da questo momento a nostro parere parte un esperienza sensoriale che è abbastanza impegnativa perché ci mette in contatto con alcuni sentimenti assai ancestrali. Per prima, la paura, il contatto con l’ignoto e con l’imprevedibilità di un oggetto, che seppure ipoteticamente manovrato dall’uomo in quel contesto non appare affatto. Quando il cane inizia a muoversi e in qualche modo entri in una sorta di confidenza con l’oggetto, questo inizia a importi dei piccoli ordini, a cui devi decidere se rispondere, o meno. Adesso ad essere messa in gioco è la fiducia, il cedere nelle “braccia” dell’altro e lasciarsi fare. C’è poi il contatto con la tenerezza e la cura, il cane ti chiede di fargli e farti delle coccole, l’imposizione di un gesto d’affetto al quale anche in questo caso devi decidere se sottostare, o meno. E qui la faccenda in qualche modo sii fa più complessa, perché mette in gioco la relazione di ognuno di noi con l’affettività, o l’ipotetico scappare da essa. La fine dell’esperienza viene sancita dal cane robot che te lo esplicita, lasciandoti anche in questo caso in un SOSPESO di interrogativi, a cui  dare, se si vuole, risposta. E’ un’esperienza quindi, o uno spettacolo? Cosa importa, basta che sia servito. 

Sabato 7 giugno, Terrazza Casa del Popolo, “Yin Zero”, autori e interpreti Van- Kim Tran e Cyrille Humen

Su una splendida terrazza che affaccia sulla vallata e di questi scorci Narni ne ha davvero molteplici, va in scena una performance davvero molto emozionante. Su un telo bianco, tirato a terra, come un tappeto volante iniziano a danzare il duo Yin Zero, una danza derviscia in cui i corpi iniziano a ruotare ininterrottamente, mantenendo tra l’altro una sfera tra le mani che inizia a muoversi prillando sugli arti superiori. L’emozione è enorme, le musiche che i due artisti scelgono per farsi accompagnare sono dissimili , spesso anche fuori contesto dalla danza stessa, che però per una magia strana si conformano completamente sui loro corpi. Il sole sta per tramontare sulla vallata e un taglio di luce si spezza tra i pochi alberi che crescono a bordo del tappeto bianco, costruendo una scenografia naturale davvero unica. Ancora una volta un mondo SOSPESO, con corpi sospesi, che sembra stiano per decollare da un momento all’altro. 

Sabato 7 giugno, ore 20.30, Teatro Monini. “Note a Margine” di e con Nicola Piovani

Cosa fa un maestro? Racconta e dopo che ha raccontato esperisce il suo dire facendolo divenire esperienza. E questo ha fatto Nicola Piovani nel suo spettacolo, accompagnato da Marina Cesari, Vittorino Naso, Marco Loddo, tre musicisti che insieme al maestro hanno suonato per un pubblico incantato molti dei temi per i film scritti da Piovani ed altri pezzi ispirati ai miti Greci. Con le immagini che si muovevano sullo schermo, alcuna delle quali prodotte appositamente per lo spettacolo da Milo Manara. I racconti che il maestro fa, sono davvero gustosi, aneddoti su Fellini e il loro perdersi per Roma, l’incipit sui fratelli Taviani. Insomma storia del cinema e musica, il mezzo di comunicazione per eccellenza del concetto di SOSPENSIONE. 

Domenica 8 giugno, ore 5.30,  Ala Diruta. “Roberto Saviano all’alba”.

Come ogni anno Narni rinnova l’appuntamento con l’alba, questa volta tocca a Roberto Saviano. Sulla terrazza dell’ala Diruta, già dalle 5.00 del mattino inizia ad accorrere pubblico, SOSPESO ancora in uno stato di veglia e sonno. Saviano arriva puntuale, cade un silenzio magico, si parte. Esordisce con il Talmud, nel racconto dove Dio, che vuole uscire dalla sua solitudine, decide di creare il mondo. Per creare l'altro lo fa con la parola e si chiede e ci chiede qual è la parola, anzi la lettera da cui tutto ha origine; nasce così una “battaglia delle lettere”, nella quale ognuna vuole essere l’esordio di ogni cosa. Si presenta la g, come giustizia, ma è anche guerra. Poi arriva la f come fraternità, ma è anche ferita. E va avanti con ogni lettere che racchiude nell’elenco delle parole ad essa afferenti sia il bene, che il male. Dio considera tutte le lettere arroganti perché pensano di avere solo un significato. L'unica che non si è mossa è Alef, la a, seppure poi nel racconto del Talmud la scelta ricade sulla b. Dio decide di iniziare con la b, il principio, ciò che crea tutto. Così Dio concede questa sorprendente soluzione agli angeli, che fino ad allora non sapevano come nominare le cose. Nominare le cose vuol dire ricrearle e finalmente smette di essere soli. Questo l’incipit di Saviano, che poi ruota tutto sul senso della presenza dell’altro e sulla aspirazione dell’essere umano di non essere mai da solo, solo se c'è l'altro si può scegliere di cambiare le cose. E tutto il suo racconto successivo avrà esattamente questa cifra, un manifesto di sapere sulla necessità della relazione con riferimenti anche al suo ultimo romanzo “L’amore mio non muore”.

Domenica 8 giugno, ore 20.30, Teatro Manini. “Mio padre” di e con Andrea Pennacchi, voce e chitarra di Gianluca Segato.

La forza di Pennacchi parla da sola e seppure lo spettacolo è oramai non più recentissimo, c’è da dire che provoca lo stesso impatto di sempre. Scritto da Andrea, ruota sulla narrazione del padre, il partigiano Valerio Pennacchi. Pennacchi ci racconta, con ironia e leggerezza, le imprese della compagnia di amici che si strutturarono in un gruppo partigiano “Squadra di Azione Patriottica” che dal 1 aprile 1944 assumeranno i loro nomi di battaglia. Valerio detto Bepi. E poi ci sono Vladimiro, Pippo e Tombola. La compagnia riesce a svolgere qualche azione sovversiva, fin quando nel 15 agosto del 1944 vengono tutti arrestati. Trasferiti in campo di lavoro in Austria, il lager di Ebensee, di cui poi non rimase alcuna traccia, in condizioni di vita assurde, sotto il comando di Anton Ganz, comandante del campo, psicopatico che fa sbranare i prigionieri dal suo alano. Una storia infinitamente drammatica, che Pennacchi racconta con la potenza della sua voce e del suo dialetto, dando però anche voce, anzi urla all’emozione che ci investe tutti, incorniciata dai canti e dalla chitarra di Gianluca Segato. Finalmente, i carri armati americani si presentano all’ingresso del campo liberando i prigionieri, i rimasti della compagnia si salvano. Bepi appena ritorna in paese, invece di tornare a casa, morso dalla vendetta va in cerca di Pippo il traditore, che ha messo la compagnia in quella condizione, si carica le bombe addosso e quando lo trova, in una festa in piazza, invece di gettargli un ordigno addosso decide di evitare ulteriore dolore e morte, butta le bombe nel fiume e torna a casa. Uno spettacolo SOSPESO tutto il tempo tra la scelta di cosa essere, in che parte della barricata stare, tra il bene e il male. Sospeso tra l’essere figlio di un padre partigiano che ha nascosto per tutta la vita la sua storia dolorosa al figlio e l’essere diventato padre, che inevitabilmente ti porta in una condizione di responsabilità e di recupero della storia e delle origini. 

Domenica 8 giugno, ore 22.00, Chiostro S.Agostino. “In mezzo a un milione di rane e farfalle”.  Di e con Concita De Gregorio, voce e chitarra Erica Mou.

Il festival termina con lo spettacolo scritto e letto da Concita De Gregorio, tratto dall’omonimo libro dell’autrice. E seppure la notte di Narni continua con musiche in piazza, è proprio alla giornalista e scrittrice che il festival affida la chiosa. Sul palco, accanto a lei la straordinaria Erica Mou, voce e chitarra, che accompagna le parole della De Gregorio, sullo schermo passano le illustrazioni, quelle del libro, di Beatrice Alemagna. Lo spettacolo è un “quaderno degli oggetti smarriti”, un racconto poetico e potente di tutto ciò che abbiamo perduto o dimenticato. Persone, luoghi, emozioni, oggetti che sembravano dissolti nell’aria trovano nuova vita attraverso la narrazione e la musica. La voce della De Gregorio, che arriva per chi ha seguito lo spettacolo precedente, è il giusto contraltare a quella di Pennacchi, suadente e gentile, ci accompagna verso la notte che chiude il festival. Le letture e i racconti sono in questo caso un eterno SOSPESO tra ciò che non tornerà, tra ciò che inevitabilmente è andato perso, le persone, le cose, la fanciullezza. Le ultime parole dello spettacolo sono affidate in parte a una canzone di Dalla: “…io credo che l’amore, è l’amore che ci salverà….”.

 

In questo spazio SOSPESO in cui restiamo, in attesa della prossima edizione del festival. 

 

 

Barbara Chiappa

14 giugno 2025

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Recensione di ‘ Maria Callas: la Divina… quando i sogni diventano realtà’ in prima mondiale a Riva del Garda il 25 maggio 2025

 

L’Auditorium del Conservatorio di Riva del Garda ha ospitato la prima di ‘ Maria Callas: la Divina… quando i sogni diventano realtà’, interessante  lavoro firmato , per drammaturgia e regia, da Valentina Escobar , che ha a lungo indagato sulla figura di Maria Callas parlandone con  la sua amica Giovanna Lomazzi.

Da tante conversazioni è nato questo spettacolo, potremmo definirlo un  monologo con interventi di musica, che porta in scena la storia  del soprano greco facendola  narrare alla protagonista, che, in una sorta di viaggio di ritorno dall’aldilà, pare guardare alla sua esistenza con un certo distacco, parlando di Maria e della Callas,  che non sempre parlavano la stessa lingua.

Il racconto è suggestivo, dettagliato e spesso iconograficamente didascalico, interessante e ricchissimo di citazioni, riferimenti,  e si segue con interesse, sia che si appartenga alla categoria dei melomani, che ritrovano particolari curiosi ed accenni sostanzialmente inediti, sia  che si sia dei neofiti, cui viene offerta la possibilità di ascoltare la vita struggente di una donna speciale.

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Recensione del secondo cast del ‘Rigoletto’ al teatro Giuseppe Verdi di Trieste

Se la prima compagnia di  ‘Rigoletto’ ha registrato un successo unanime, la seconda non è stata da meno. Anzi, per certi versi ha saputo essere ancora più sorprendente.

Rivedendo lo  spettacolo, non possiamo che riaffermare tutte le perplessità  relative al fin troppo  sgargiante allestimento,  con i fondali in gran parte occlusi alla vista dalle gallerie; ai costumi, pur firmati, apprendiamo da Facebook, da una fuoriclasse  della moda come Regina Schrecker ed alla regia firmata da Vivien Hewitt, regista dalla apprezzata carriera, che però in questa occasione ci è parsa  non aver offerto contributi  realmente significativi, rendendo l’aspetto visivo assolutamente secondario rispetto a quello musicale.

Daniel Oren ha saputo cesellare una direzione misurata, attenta, ricca di pathos, asciutta a trascinante.

Non ci sono stati quei gesti vistosi che tanto hanno caratterizzato la carriera del Maestro israeliano, a tutto vantaggio di una narrazione intensa, fortissima di spunti, che è riuscita ad esaltare le caratteristiche dei cantanti, grazie anche all’intesa che  da sempre lega questo direttore all’orchestra del teatro Verdi, che ha fornito una prova brillante e sicura.

Si conferma positivamente in crescita la resa  del coro, diretto dal Maestro Longo.

Le voci hanno offerto una prova convincente, a cominciare dai comprimari. Funzionale vocalmente e convincente scenicamente l’uscere del sempre affidabile Giuliano Pelizon.

Fra i cortigiani si distingue per resa scenica e sicurezza vocale il Conte di Ceprano di Dario Giorgelè . Al suo fianco la presenza lussuosa di Fabio Previati, artista dalla lunga e prestigiosa carriera, come riuscito Marullo .

Enzo Peroni convince come Matteo Borsa, mentre  Mirian Artico risulta più credibile come contessa, che come paggio.

Gabriele Sagona,  con il passare delle recite si conferma Monterone  di grande carisma, potente vocalmente  e suggestivo scenicamente.

Carlotta Vichi, è cantante dalle grandi potenzialità, sia dal punto di vista vocale che attoriale e speriamo di poterla ascoltare presto in ruoli di maggior peso.

Carlo Striuli ha quarant’anni di carriera, che se da un lato si sentono nella resa vocale, dall’altra gli permettono di costruire attorialmente uno Sparafucile che il pubblico dimostra di apprezzare.

Martina Belli ha figura sensuale  ed interessante voce solfurea, che la trasformano in una credibile Giovanna, nonostante delle forzature registiche che più che aiutarla sembrano stereotipare  il suo personaggio.

Sabina Puertolas, che in alcune repliche si alterna a Federica Guida, è presente anche in questa compagnia. La sua voce, certamente di notevole qualità, conferma un colore fin troppo maturo per Gilda, ma la sicurezza tecnica e l’omogeneità del registro, pur con qualche accettabile asperità, le consentono di cesellare una prova assolutamente positiva. Le tante difficoltà vocali sono superate in modo convincente  ma rimane la sensazione che se la scelta dei ruoli si orientasse verso parti più drammatiche, la cantante potrebbe  mettere ancora più in evidenza i tanti pregi di una  voce ricca di  colori  e di una interessante personalità.

Rispetto alla prima proposta, cambiavano tanto il tenore che il protagonista.

Ivan Ayon- Rivas possiede sia il fisico che la tempra vocale per essere un magnifico Duca di Mantova.

Già dalla prima aria sfoggia una tavolozza vastissima, dotata di interessanti colori scuri, oltre che di sfumature di smagliante purezza che gli consentono acuti svettanti e sicuri.

Il suo Duca non è figura scontata o monolitica, anche grazie ad una performance attoriale di spessore, che mette in evidenza i molteplici aspetti di questo ruolo.

Già da ‘Questa o quella’ capiamo che il personaggio è costruito con sapienza: le note svettano sicure, ma non hanno il sopravvento sull’interpretazione, che diventa ancora più interessante nel successivo ‘E’ il sol dell’anima’ che brilla per il lavoro attento su ogni singola parola fino ‘Adunque amiamoci’ per il quale  il tenore sfoggia una baldanza giovanile e virile molto convincente.

La scena del terzo quadro offre ad Ayon- Rivas la possibilità  di mettere in evidenza in ‘Ella mi fu rapita’ acuti potenti, magnificamente velati di rimpianto, una tavolozza ampia impiegata con commovente sensibilità ed alcuni gesti, pensiamo frutto del suo repertorio personale,  come quando abbraccia l’aria cercando la fanciulla che non sa dove sia, francamente commoventi.

L’ultimo atto permette al giovane cantante peruviano di sfoggiare tutta la sua esuberanza vocale già con una pirotecnica ‘La donna è mobile’, seguita da una intensissima ‘Bella figlia dell’amore’, che un piccolo appannamento di una mezza voce, rende ancora più suggestiva.

Potente anche il contributo offerto nel quartetto, che Oren dirige ottenendo un raffinato equilibrio di struggente impatto poetico.

Youngjun Park era chiamato a subentrare ad Amartuvshin Enkhbat, meritatamente celebrato da stampa ed appassionati.

Diciamo subito che il baritono coreano ha saputo non far rimpiangere il collega mongolo, grazie ad una interpretazione intensa,  senza eccessi, priva di forzature, ma soprattutto connotata da una grande personalità.

Il suo è un uomo provato, che interiorizza delusioni e dolori, dilaniato dentro, autenticamente ferito dall’esistenza.

Park non ricorre mai a quei gesti ad effetto, che regalano l’applauso facile, ma interrompono il pathos narrativo ed anche questo dimostra come in questi anni la sua crescita sia stata esponenziale: la sua voce  è omogenea in tutto il registro, sicura negli acuti, potenti e pieni, suggestiva nel canto a fior di labbra, salda nelle mezze voci, supportata da una recitazione magnetica, mai scontata ed assolutamente poetica.

Una prova attoriale preziosa ed una resa vocale smagliante,  che esplode nella sua forza già  dopo la ‘Maledizion’, quando l’angoscia prende forma in un canto coinvolgente, che si fa ancora più drammatico in ‘Quel vecchio maledivami’, nel quale le note paiono plasmate nella paura. Quando Rigoletto intona ‘Pari siamo’ sembra cercare dei toni che lo convincano di essere stato costretto a beffeggiare Monterone. Rendendo così palese la sua bontà di fondo, la sua repulsione per un mondo che detesta, ma che è anche l’unico nel quale poteva trovare posto.

‘Deh non parlare al misero’ è duetto di autentica poesia, nel quale il baritono commuove  anche con struggenti passaggi a fior di labbra.

La scena con i cortigiani è intonata con misura, senza abusare dei pur  grandi mezzi vocali. Il suo buffone è un uomo umile, provato, che anche nel momento della rabbia non esplode con moti sguaiati, ma mantiene un atteggiamento controllato, quasi fosse rassegnato ad una sorte impietosa.

 ‘Cortigiani vil razza dannata’ è interpretata in modo magistrale ed il successivo ‘Piangi, fanciulla piangi’, è cantata scavando il significato profondo di ogni parola. Pare che Rigoletto chieda al dolore di farsi lacrima e di passare dal cuore della figlia  al suo, come a voler tergere la vita della fanciulla dallo strazio dell’abuso patito.

‘Vendetta, tremenda vendetta’, bissata come ogni sera, manca di quella spinta esteriore che la tradizione le associa, ma sembra una sorta di riflessione a voce alta, una presa di coscienza intensa e sofferta, descritta con eleganza, voce piena, acuti potenti e fiati lunghissimi.

Deflagrante  il crescendo narrativo conclusivo, con una vendetta che si trasforma in profonda disillusione, poi in paura, fino al dolore più intenso, con l’acuto, lunghissimo ma senza forzature od  effetti strappa-applausi , di ‘la Maledizione’ che sembra una implacabile pugnalata che strappa speranze e sogni.

Un’ondata oceanica e meritatissima di applausi premia la grandissima qualità della prova offerta dal baritono, ma va sottolineato che la sala  tributa ovazioni a tutti gli altri interpreti, in particolare a Ivan Ayon- Rivas, Sabina Puertolas e soprattutto al Maestro Oren, da sempre beniamino del pubblico triestino.

Un successo indiscutibile, che premia il lavoro della direzione del teatro, che sta cercando di riportare il Verdi ai fasti di un passato luminoso, che sembrano non essere più così irraggiungibili.

 

Gianluca Macovez

27 maggio 2025

 

informazioni

Trieste, Teatro Verdi, 25 maggio 2025

Teatro Giuseppe  Verdi, Trieste

Stagione Lirica e di balletto 2024-2025

RIGOLETTO

Musica di Giuseppe Verdi

Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Le Roi s’amuse di Victor Hugo

 

Maestro Concertatore e Direttore DANIEL OREN

Regia VIVIEN HEWITT

Maestro del Coro PAOLO LONGO

Allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

 

Personaggi e interpreti

Rigoletto  YOUNGJUN PARK

Gilda SABINA PUÉRTOLAS

Il Duca di Mantova IVÁN AYÓN-RIVAS

Maddalena MARTINA BELLI

Sparafucile CARLO STRIULI

Giovanna CARLOTTA VICHI

Monterone GABRIELE SAGONA

La Contessa di Ceprano / Un paggio della Duchessa MIRIAM ARTIACO

Matteo Borsa ENZO PERONI

Marullo FABIO PREVIATI

Il Conte di Ceprano DARIO GIORGELÈ

Un usciere di corte GIULIANO PELIZON

Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

 

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Recensione dello spettacolo La gatta sul tetto che scotta in scena al teatro Vascello dal 20 al 25 Maggio 2025

 

Il regista ritorna al “Vascello” nel giro di pochi mesi, questa volta con l'opera scritta nel 1955 dal premio Pulitzer Tennessee Williams, che più mette in luce i conflitti e le ipocrisie della famiglia tradizionale. Pièce famosa per la sua lettura cinematografica interpretata da Paul Newmann e Elizabeth Taylor.

L'ambiente è vuoto e biancastro, quasi uno spazio della mente in catalessi, costituito da una stanza di pareti fatte di piastre di marmo. Si sposa perfettamente con lo stato apatico e depresso di uno dei protagonisti, Brick, che infortunato ad una caviglia zompetta da un lato all'altro in cerca di alcool e assuefazione, per dimenticare il fallimenti della sua vita sportiva e sentimentale. Pian piano compaiono e si avvicendano in rapporto a lui i vari familiari intrisi di interessi personali e di bugie, che cercano ma non riescono ad ottenere i propri scopi. C'è una generale incomprensione e finto interesse che contraddistinguono i rapporti, salvo il caso della madre che si prodiga per tenere unita e pacifica la famiglia. 

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 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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