Giovedì, 01 Maggio 2025
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‘Lucia di Lammermoor’, Jessica Pratt illumina il Verdi di Trieste

Recensione delle recite di ‘Lucia di Lammermoor ‘ al Verdi di Trieste

‘Lucia di Lammermoor’ ritorna a Trieste ad otto  anni dall’ultimo allestimento.

Lo spettacolo brilla della presenza di una fuoriclasse come Jessica Pratt, per la prima volta al Verdi, della bacchetta di Oren e di numerose presenze eccellenti nel cast e soffre di una regia latitante, con costumi e scene deludenti.

Ma andiamo con ordine.

Partiamo dall’allestimento, proveniente da l’Opera di Las Palmas de Gran Canaria.

Le scene di Carmen Castanon ed i costumi di Claudio Martin hanno fatto un lungo viaggio e francamente non abbiamo capito perché, vista la povertà dell’insieme.

Il teatro ha in deposito un bell’allestimento di Pier Paolo Bisleri che certamente avremmo rivisto ancora una volta con  più interesse di questo,  sostanzialmente costituito da una panchina, una coppia di tavoli, delle sedie, una tomba ed una bara, collocate in uno spazio definito da un fondale con delle proiezioni e delle quinte trasparenti e mobili.

Peggio va con la regia di Bruno Berger- Goski, che affianca staticità  a momenti imbarazzanti, come quando Lucia canta salendo su una panchina e vacillando come fosse Amina e, peggio, molto peggio, quando durante la festa delle nozze tre giovani fanno  il trenino come fossimo a capodanno, fino a chiudere con un feto rotante durante l’aria conclusiva di Lucia ed una teoria di monaci che quando Edgardo prima si dispera e poi si uccide sulla tomba di Lucia, si mette di spalle a sepolcro ed innamorato piangente.

Non parliamo di approfondimento dei personaggi, che a noi pare affidato alla buona volontà, in qualche caso al genio, degli interpreti. Male rese le entrate, con un Edgardo che esordisce in scena con fare compassato come se andasse a comperare il giornale e molte delle uscite non risolte. Ancora una volta il ricordo va all’ultima ‘Lucia ‘ del Verdi, firmata nella regia dal bravo Ciabatti.   E viene da rimpiangerla.

Passiamo alla parte musicale, ben più riuscita.

Il Maestro Daniel Oren , sempre amatissimo a Trieste,  offre una lettura non scontata, misurata ed  interessante,  pur se ferita da molti tagli.

Il direttore israeliano riesce ad ottenere dall’orchestra del teatro Verdi un bel suono, con diverse sezioni in evidenza e sceglie di  fare un passo indietro rispetto agli  atteggiamenti istrionici che lo hanno reso popolare, per cesellare una lettura che riesce ad esaltare la musica di Donizetti ed a servire e sostenere i cantanti con competenza e giusta misura.

 La partitura scorre evocando atmosfere nebbiose, brume eleganti, forse  senza quei momenti di travolgente suggestione che ricordavamo in altre sue direzioni di questo titolo, ma  con una  intesa con  gli interpreti che incanta ed esalta

Il coro, diretto dal Maestro Longo, risulta più compatto nella sezione femminile, decisamente in crescita, mentre quella maschile, con numerosi nuovi inserimenti, deve trovare il giusto equilibrio per un amalgama sonoro che renda il giusto merito.

Fermo restando che la prova fornita nell’insieme, viste le richieste della partitura e l’esiguo numero di coristi , è da apprezzare.

Veniamo quindi alle voci solistiche.

Nel corso delle recite si sono alternati due cast, proposti in tre combinazioni.

Nel ruolo di Edgardo abbiamo sentito in entrambe le occasioni Ivan Macri, che si alternava ad un applauditissimo, ci dicono, Francesco Demuro.

Macrì è un tenore interessante, che riesce ad interpretare senza difficoltà  l’impervia partitura, addirittura cantando due giorni di seguito.

Il colore ricco  della sua voce fa pensare che in questo momento possa trovarsi più a suo agio in ruoli da tenore drammatico, perfino verista, piuttosto che belcantistici e certamente la regia ed i costumi non lo aiutano nel rendere il personaggio, nonostante  possieda un fisico aitante e delle buone capacità sceniche. Ma certo questa non è una colpa possa essere imputata a lui.

In diversi momenti è parso più preoccupato di rendere gli aspetti musicali che quelli drammaturgici, più concentrato sul suono che sulla parola, ma è comprensibile visto la complessità della parte e la pochezza dell’azione.

Intensa l’interpretazione data a ‘Tombe degli avi miei’, con una amplissima tavolozza di colori ed una vasta gamma di sfumature, con delle mezze voci  di grande suggestione ed un colore venato di dolore realmente pregevole, ampliamente applaudita dal pubblico.

Il   ruolo del subdolo Lord Enrico, ha le voci di Maxim Lisiin e di  Youngjun Park.

Il primo è giovane. Si vede e soprattutto si sente. Dopo  un corretto  inizio, con una ‘Cruda funesta smania’ in cui evidenzia buona musicalità, acuti e fiati adeguati, nel proseguo dell’opera convince meno , offrendo una prova vocale soddisfacente ma non suggestiva,  dimostrando una recitazione sommaria ed un lavoro sulla parola ancora da approfondire. La carriera è all’inizio e certamente sono elementi su cui saprà lavorare.

A lui si alternava, il baritono coreano Park, che ha saputo plasmare una figura intensa, espressiva scenicamente e ricca vocalmente.

Un colore brunito, la capacità di trovare la giusta sfumatura, acuti poderosi ed un volume in grado di travolgere, hanno fatto di lui una figura di primo piano del secondo cast e ridato alla parte in giusto peso.

Carlo Lepore, un vero lusso per la parte di  Raimondo e  che ricordiamo pirotecnico Don Ramiro la scorsa stagione, ha cercato toni umanissimi e sfumature dolenti, in particolare per l’apprezzata ‘Al ben dei tuoi qual vittima’.

Gli subentra in due recite Gabriele Sagona, che sfoggia una voce ricca di armonici  e di colori.  Dimostra un attento lavoro sulla parola, in particolare in ‘Deh t’arrendi, o più sciagure ti sovrastano’ nel quale dispiega una  notevole tavolozza di sfumature.

Certo non deve essere stato facile per entrambi  gli interpreti cercare di essere coinvolgenti e credibili  con una regia che mentre intonano  ‘Offri Lucia te  stessa’ li costringe a non guardare la fanciulla.

Enzo Peroni caratterizza con efficacia il ruolo ingrato di Lord Arturo;  Miriam Artiaco è una Alisa funzionale, qualche volta coperta dall’orchestra e spesso costretta a moti quasi caricaturali; sembra più in difficoltà, forse per i ritmi serrarti delle repliche, il Normanno di Nicola Pamio.

Rimane Lucia.

Aigul Khismatullina, presente in due spettacoli, assolve bene alla parte.

La voce non è grande, ma ha un bel colore ed una ampia estensione. La tecnica è precisa, gli acuti ed i sovracuti sono  sicuri e brillanti. Non ha difficoltà nelle agilità , in particolare in quelle della grande scena della pazzia, che il pubblico premia con una autentica ovazione, mentre nella prima parte è inappuntabile dal punto di vista dell’esecuzione, ma poco coinvolgente ed emozionante. Forse la tensione, forse la giovane età , ma è un peccato veniale benissimo superato nel proseguimento dello spettacolo, alla fine del quale il pubblico la acclama con convinzione.

Un discorso a parte, però, merita Jessica Pratt, dono prezioso per il pubblico triestino, cui ha promesso di ritornare.

L’abbiamo ascoltata nell’ultima delle sue recite. I problemi di salute che avevano preoccupato alla prima, comunque portata a termine con onore, erano superati ed abbiamo assistito ad una prova di intensità rara.

Tecnicamente sicurissima, con acuti solidi, fiati oceanici, pianissimi di luminosa bellezza e filati incantevoli, è riuscita a mettere queste doti al servizio del personaggio che ha saputo scolpire con una potenza drammatica ed una poesia che è rarissimo incontrare.

I colori erano infiniti, la gamma delle sfumature stupefacente. Credibile sempre, anche quando sale sulla panchina per cantare oscillando, perché lo sguardo, i moti, i piccoli gesti ti conquistavano, attanagliandoti ad una vicenda che quando arrivava in scena lei si faceva improvvisamente autentica.

Crediamo che la caratterizzazione del personaggio sia sostanzialmente sua, per come riesce a vivere la vicenda.

Quando entra velata e comincia a lottare con il fantasma, pare dare forma ad ogni suono, in una performance totale, quasi una coreografia che non ti aspetti. Cade, si rialza, si inginocchia, ed intanto canta. Senza nessuna flessione, senza disomogeneità, senza alcun cedimento.

Il lavoro sulla parola incanta e non meraviglia che la Signora Pratt abbia citato in più occasioni Daniela Barcellona come uno dei suoi punti di riferimento.

Il modo in cui cesella ‘mio’ e ‘clemente’ nella grande aria del terzo atto sono lezioni di poesia.

Le note escono sicure, ma non sono mai suoni, ma forme, racconti, suadenti narrazioni emozionali. Quando alla fine prende il velo, lo trasforma nel bambino mai avuto e lo culla, ninnandolo con le variazioni dell’aria, si resta ipnotizzati, viene da piangere, perché si vede la vita rubata prendere forma.

Quando quel velo si apre e dalla madre affettuosa si passa alla citazione della Pietà, con la Vergine dolente che piange, pare che il sangue che inonda Lucia provenga dal suo cuore, cui Edgardo è stato strappato.

Attimi di assoluto, nei quali il canto non è esibizione ma carezza all’animo di chi ascolta.

Si va oltre l’aria, oltre la musica e si incontra l’Arte.

Il tutto in un silenzio Sacrale, che si trasforma, a fine aria, in una tempesta di applausi, cui la Signora Pratt risponde con un bis.

Nel quale non ripete la medesima situazione, ma caratterizza tutto in modo differente, facendosi fanciulla arrabbiata, che brandisce un pugnale.

In quei momenti Lei era Lucia, o forse si raccontava attraverso quel ruolo e replicare i gesti sarebbe stata una semplificazione che male si addiceva a tanta immedesimazione, all’omaggio alla prima delle donne indipendenti della storia dell’opera, alla più vera delle fanciulle fino a quel momento portate sui palcoscenici lirici.

Non possiamo che rimanere abbagliati da tanta autentica Passione al servizio della quale la Pratt, affiancata e sostenuta da Oren, ha posto tutta la sua grandezza di musicista, di interprete, di cantante, di donna.

Alla fine applausi per tutti, tanti, tantissimi, affettuosi ed entusiasti, grati e convinti.

Forse non uno spettacolo memorabile, ma delle interpretazioni indimenticabili, siamo sicuri anche per i numerosi ragazzi che hanno aspettato la Pratt all’uscita, acclamandola e festeggiandola come e più di una rockstar.

Con interpreti così, l’opera non muore.

 

Gianluca Macovez

30 aprile 2025

 

 

informazioni 

STAGIONE LIRICA E DI BALLETTO 2024-25

LUCIA DI LAMMERMOOR

Musica di Gaetano Donizetti

Dramma tragico in due parti e tre atti su libretto di Salvatore Cammarano dal dramma The Bride of Lammermoor di Sir Walter Scott

Ed. musicali: E. F. Kalmus & Co., New York

 Maestro Concertatore e Direttore DANIEL OREN

Regia BRUNO BERGER-GORSKI

Scene CARMEN CASTAÑÓN

Costumi CLAUDIO MARTÍN

Maestro del Coro PAOLO LONGO

Allestimento di Amigos Canarios de la Ópera di Las Palmas de Gran Canaria

 

Lucia  JESSICA PRATT (17, 22,24 26/IV) /AIGUL KHISMATULLINA (18, 27/IV)

Edgardo FRANCESCO DEMURO (17, 22, 24/IV) /IVAN MAGRÌ (18, 26, 27/IV)

Lord Enrico MAXIM LISIIN (17, 22, 24, 26/IV) / YOUNGJUN PARK (18, 27/IV)

Raimondo CARLO LEPORE (17, 22, 24, 26/IV)/GABRIELE SAGONA (18, 27/IV)

Lord Arturo ENZO PERONI

Alisa MIRIAM ARTIACO

Normanno NICOLA PAMIO

 

Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

 

Teatro Giuseppe Verdi, Trieste,  26 e 27 aprile 2025

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 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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