Sabato, 27 Luglio 2024
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L’esistenza come scuola: Max Mazzotta racconta Vite di Ginius

Max Mazzotta ha scritto, dirige e interpreta Vite di Genius: uno spettacolo teatrale al suo debutto. È l’occasione per parlare in maniera più approfondita di questa opera ma anche della sua visione del teatro, della differenza con il cinema o la televisione e del suo legame con Cosenza dove ha fondato una compagnia. 

 

 

Lo spettacolo Vite di Ginius, debuttato all’interno del Campania Teatro Festival a Napoli, è stato scritto, diretto e interpretato da te. Tratta di azioni che non si ha avuto il coraggio di compiere o la volontà di arrestare, karma e possibilità di riscatto. Da dove è venuta l’ispirazione?

L’ispirazione nasce dalla domanda sul come viviamo la nostra esistenza, più che sul perché esistiamo. Lo spettacolo non vuole dare risposte ma porre il pubblico nella condizione di formulare esso stesso questa domanda. Il fil rouge che lega tutte le storie in cui Vite di Ginius si dipana è la consapevolezza che l’esistenza è una scuola e che a volte serve più di un ciclo di vita e morte per capirne il valore. Ginius deve ripercorrere le sue vite e gli impedimenti che le hanno macchiate per arrivare alla consapevolezza finale che gli permetterà finalmente di sciogliere il suo nodo karmico.

 

Cosa vorresti lasciare a chi viene a vedere il tuo spettacolo?

Il nostro mondo è sempre più concentrato sugli aspetti materiali e se vogliamo edonistici dell’esistenza. A mio avviso il compito del teatro oggi, e qui mi inserisco nella falsariga della scuola brechtiana, è di essere uno stimolo, una finestra su qualcosa di profondo che continui a vivere in noi anche a spettacolo finito, una piccola scossa che lasci una crepa in cui possano risuonare domanda nuove.

  

In moltissimi ti ricordano per il ruolo di Enrico Fiabeschi in Paz, film di Renato De Maria ispirato ai fumetti di Andrea Pazienza. Un personaggio che hai nuovamente interpretato, questa volta in un tuo lungometraggio intitolato Fiabeschi torna a casa, raccontandolo idealmente trent’anni dopo. Cosa ti ha spinto a indossare nuovamente i suoi panni?

Enrico Fiabeaschi è di sicuro un personaggio che amo molto ancora oggi, per la sua capacità di essere sempre fedele a se stesso nei suoi vizi e nella sua ingenua incapacità di risolversi che è anche la fonte alchemica della sua comicità. Ne ho voluto indossare nuovamente i panni perché mi piaceva provare a raccontare la Calabria con gli occhi di un personaggio diventato adulto in cui la sfida voleva essere quella di affiancare alla sua comicità iconica anche un lato poetico e sconosciuto.

 

A differenza di molti tuoi colleghi, dopo il diploma presso la scuola del Piccolo Teatro di Milano hai deciso quasi subito di impegnarti nella tua terra d’origine: la Calabria, in particolare Cosenza. Tanto da fondare e dirigere la compagnia Libero Teatro. Come e perché sei arrivato a questa scelta?

Dopo la morte del mio maestro Strehler ho sentito l’urgenza, il bisogno di elaborare i profondi insegnamenti ricevuti in una visione che mi appartenesse. A Cosenza ho avuto la fortuna di incontrare persone entusiaste, pure, che mi hanno dato fiducia e hanno abbracciato questo progetto - che all’inizio era solo un immaginario - rendendolo concreto. Da questa comunione di intenti è nato Libero Teatro.

 

 Lavori in teatro, per la televisione e per il cinema: che differenza c’è, per te, tra questi medium? Anche per quanto riguarda l’approccio recitativo.

Io sono un uomo di teatro, il cinema e la televisione sono importanti nella mia vita ma li vivo come fonti di ricerca e spunto da portare sul palcoscenico. Difatti in vite di Ginius ho ideato un’installazione video che aiuta lo spettatore ad entrare meglio nel percorso narrativo. Il lavoro sul personaggio è molto differente: in teatro l’evoluzione del personaggio è fonte di una ricerca che richiede tempo, che cresce con le prove in palcoscenico e che con le recite acquista vita nuova e spessore più profondo attraverso la necessaria alchimia con il pubblico; i tempi di cinema e televisione sono più brevi quindi il lavoro dell’attore è anteriore alla ripresa. Quando si arriva a girare una scena il personaggio è nato prima, pensandolo quotidianamente, ben consapevoli che uno e uno solo sarà il ciak che andrà sullo schermo e che non cambierà mai più.

  

Da anni si parla del futuro del teatro e del suo ruolo nella società. Un tema che durante la pandemia, con i teatri chiusi, i tentativi di streaming e altri esperimenti più o meno riusciti, è diventato ancora più urgente. Qual è il tuo punto di vista?

Io credo che il teatro abbia necessità dello spazio teatrale, è l’arte del kairos; tutto avviene sempre uguale e sempre diverso in una comunione tra chi recita sul palcoscenico e chi vive nella platea nella condivisione di uno stesso momento. Non penso che lo streaming possa essere affine a quello che è il meccanismo teatrale, semmai il contrario. Sono convinto che quest’arte così antica non morirà mai, e riuscirà a rinnovarsi anche se i tempi saranno più lunghi, le strade più tortuose, ma è qualcosa che fa parte dell’umano.

 

 

Cristian Pandolfino

1 luglio 2021

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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