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Danze al chiaro di luna. Il tormento e l'estasi nella sacralità della musica profana

Recensione del concerto Danze al chiaro di luna, in scena all'Aula Magna della Sapienza il 26 ottobre 2019

 

Dopo esserci persi I sei Concerti Brandeburghesi di Bach non potevamo certo mancare a questa serata con Giuseppe Albanese al pianoforte. Nonostante tempo e traffico romano abbiano fatto di tutto per farci arrivare in ritardo (un ritardo di pochissimi minuti ci ha costretto, insieme ad altri astanti dell'ultimo minuto, ad ascoltare la Sonata n.14 in do diesis minore op. 27 n. 2 di Beethoven "Al chiaro di luna" sul pianerottolo in attesa di entrare nel breve intervallo, ricolmo di applausi, tra l'esecuzione summenzionata e la successiva, Fantasia in do maggiore op. 17 di Schumann) alla fine, come un eroe delle fiabe dopo mille e più peripezie, mi sono seduto ed ho goduto della bravura e dell'estro di uno dei più promettenti pianisti italiani del momento.

Durante l'ora di concerto, che nella seconda parte ci ha regalato la Suite da L'uccello di fuoco di Stravinskij, la Suite bergamasque di Debussy e La valse di Ravel, è stato praticamente impossibile distogliere gli occhi dalle mani del M° Albanesi che sulla tastiera, con la naturalezza e la fluidità di due ballerini nell'atto della danza, guizzavano, saltavano, piroettavano, glissavano marcando e sottolineando un'accentatura e una punteggiatura tutta personale che ha dato nuovo smalto a delle partiture che fin troppo spesso sono state e vengono eseguite o con svenevolezza o con troppa scolasticità. Il pianista di Reggio Calabria, senza alcun dubbio, al di là della tecnica e dello studio, ha fatto un grandissimo lavoro finalizzato alla sfera emotiva della musica. Le sue mani, di volta in volta, si sono trasformate in quelle di Beethoven, Schumann, Stravinskij, Debussy e Ravel, trasmettendo al pubblico, in forma di note, le più recondite sfumature di ogni singola partitura. La tensione emotiva e fisica è stata enorme e alla fine di ogni pezzo se ne percepivano i segni sul suo volto; Il pianoforte non era più un semplice strumento musicale ma l'estensione del musicista nell'atto di trasformare un linguaggio matematico, la musica, in un linguaggio ancora più astratto ma privo di ogni qualsivoglia razionalità, le emozioni. Dopo tanto tempo (per quel che ci riguarda faccio testo al violoncellista Andrei Ioniță) il concerto ha perso la funzione di semplice esecuzione per assumere, nuovamente e finalmente, quella di virtuosa interpretazione. Una serata rara ed unica nel suo genere, dove il pubblico della IUC si è consumato le mani in una lunga serie di applausi che sono valsi due bis con conclusione chaickoskijana.

 

Fabio Montemurro

31 ottobre 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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