Giovedì, 25 Aprile 2024
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Ugo Dighero fa rivivere Dario Fo utilizzando al meglio le armi del Maestro: ritmo, leggerezza, dinamismo e gramelot

Recensione dello spettacolo Mistero Buffo, in scena dal 10 al 13 ottobre al teatro Brancaccino

 

Mettersi alla guida di una Ferrari non è affatto facile e spesso ci sono almeno due rischi: il primo è che in partenza il bolide si inceppi e con rumori da vecchia 127 si spenga così da creare attorno risatine di scherno; il secondo rischio, opposto ma non meno imbarazzante, è quello di risultare tracotante in partenza, bruciando tutti, semaforo compreso, facendo nascere sdegno e sentimento d’urto nei confronti di chi ha accelerato fuori dal seminato.

Insomma il compito di Ugo Dighero, andato in scena fino al 13 ottobre al Brancaccino con Mistero Buffo di Dario Fo, era davvero uno di quelli dove sbagliare anche solo una virgola, un tempo, un gesto e uno sguardo si sarebbe rivelato fatale. Eppure lui è riuscito nella perfezione a far rivivere tutto il senso e le atmosfere del celebre spettacolo del maestro. Vero è che, come raccontato nell’intervista che ci ha rilasciato qualche giorno fa (disponibile cliccando qui), sono ormai più di trent’anni che il comico genovese porta a spasso per teatri il capolavoro di Fo ma come sempre, soprattutto con un testo del genere, ogni performance ha storia a sé.

Quello del Brancaccino è stato uno spettacolo intenso, rapido e instancabile, di quelli che, dopo aver assistito a un’ora e mezza di recita, vorresti continuasse ancora e ancora e ancora. Altri misteri Ugo, altro gramelot con cui poter sognare arditi accostamenti dialettali e buffe espressioni facciali e vocali.

Ci piacerebbe più che soffermarci sui due monologhi portati in scena (Il primo miracolo di Gesù Bambino e la Parpaja Topola) raccontarvi il Fo portato sul palcoscenico da quel grande istrione che è Ugo Dighero. D’altronde le caratteristiche per tenere tutti gli spettatori concentrati su di lui le ha sempre avute a partire dalle gag con i Broncoviz fino alle performance comiche durante gli sketch di Mai Dire Gol. Ma questa volta è stato diverso: l’incontro con il mostro sacro Dario Fo, mette in luce le abilità più profonde di Ugo Dighero che sembra quasi non dover neanche indossare una metaforica maschera per calarsi nei panni del geniale artista. Certo, lui stesso si pone a una distanza siderale dal vincitore del Nobel, ma ogni volta che la scena è occupata interamente dalle sue movenze e dal ritmo che riesce a modulare secondo dopo secondo, sembra che una fiamma del Maestro si accenda dentro di lui, tanto da farlo ardere in scena quel tanto che basta per ammaliare il pubblico.

Fo era un animale da palcoscenico, un affabulatore nato e con lui anche le onomatopee più assurde diventavano arte. Con Dighero siamo di fronte ad un istrione, un alfiere dell’arte del ridere e del saper far ridere anche solo un “Belin” che ovviamente scappa nel mash-up di dialetti e sonorità del nord italiche. La capacità di occupare lo spazio scenico, riempito solo dalla sua figura agile, dinamica e sempre in continuo divenire, è l’elemento che regala allo spettatore la consapevolezza di essere lì con lui sul palcoscenico, come se stessimo non più in un teatro ma in una stanza, seduti su un divano ad ascoltare un racconto surreale ma umano e appassionato di un nostro amico.

Quindi il ritmo: quello che Fo imponeva ai suoi monologhi era forsennato e al contempo avvincente. Dighero riesce perfettamente nel riportare in vita quel modo cavalcante di raccontare scene e momenti. Sì, è una cavalcata avvincente e circolare che parte da un punto minuscolo e magari lontano, arriva ingrandito agli occhi degli astanti per poi, con dolcezza e poesia allontanarsi di nuovo per tornare al punto iniziale ma arricchito di una variegata dose di sogno realizzato. D’altronde l’idea di Fo era quella di realizzare in scena un sogno rendendolo con il linguaggio più semplice che esista: il gramelot sembra complesso ma è proprio nel suo mescolare suoni, versi, dialetti, modi di dire e fare che si nasconde la semplicità comunicativa. E anche a Dighero basta un’espressione del volto per farci comprendere appieno il genio di Dario Fo, in un lampo di luce, come stella cometa che accompagna alla capanna.

Il finale di Dighero è una poesia di sua composizione, nata dall’incontro tra un futurismo d’intenti – la velocità di questa società è sì differente da quella in cui si agitava inquieta e anche maldestra a tratti la corrente letteraria – ma rende alla perfezione quell’affanno dovuto alle distrazioni dovute da suoni e immagini attuali – e un occhio critico ma mai banale sulle attuali condizioni. Una poesia frutto di un ragionamento, di uno stato d’animo e di un sentire il mondo attraverso gli occhi di chi attraverso un tono sempre ironico e con un umorismo intelligente è riuscito dall’inizio della sua carriera a dare spazio e voce all’identità dello spettatore. Con Dighero infatti lo spettatore riesce a guardare la realtà e a realizzare, attraverso una battuta o un’espressione facciale, tra lo stupito e il fanciullesco la cruda verità.


Federico Cirillo

14 ottobre 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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