Mercoledì, 09 Ottobre 2024
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CALESSO E GARATTINI RAIMONDI INCANTANO SAN GIUSTO

Recensione di Turandot di Giacomo Puccini in scena al Castello di San Giusto a  Trieste dal 10 al 13 luglio 2024

 

 

Il teatro Verdi di Trieste ha messo in scena ‘Turandot’ al Castello di San Giusto, uno  dei luoghi simbolo della città, che ospitò grandi allestimenti d’opera   negli anni Quaranta e Cinquanta e che finalmente  riapre il suo cortile per un grande spettacolo lirico.

Il titolo è certamente amatissimo dal pubblico triestino che ha affollato il Cortile delle Milizie del castello, nonostante sulla carta si trattasse di una ripresa dell’allestimento andato in scena al chiuso nel 2023, che oltretutto era un aggiustamento dello spettacolo del 2019.

Diciamo subito che la scelta si è dimostrata vincente, grazie al talento sontuoso del regista.

Davide Garattini Raimondi, coadiuvato da  Anna Aiello, che ancora una volta ci lascia incantati. Tutto funziona, anche se il palcoscenico è più piccolo, anche se le proiezioni sono su un telo che non prende tutto il fondale, anche  se la struttura montata fa tanto Vasco Rossi in tour.

Ma nulla è cosi perché l’operazione della Fondazione del Teatro Verdi poggia su passione  e magia, su talento e competenza.

Perché se è vero che abbiamo già visto tutto, nulla si ripete ed ogni elemento si fa più prezioso. Lo spettacolo interagisce  in maniera delicata con il luogo, ma soprattutto ci regala continui stimoli, in un gioco di rimandi, collettivi e personali, che ci coinvolge e ci prende per mano.

Garattini è uomo di teatro intelligente e profondo, che struttura la narrazione su più livelli, evitando compiacimenti e facili effetti. 

La struttura, agevole e funzionale , ideata da  Paolo Vitale, autore anche del suggestivo disegno luci e delle proiezioni, sembra aver trovato nel fortilizio tergestino una dimora appropriata. Elementi moderni ed essenziali, adatti a raccontare una storia senza tempo e senza luoghi, proprio come la narrazione di Garattini, che va oltre il quotidiano, per cogliere i disagi dell’animo, per trovare posto nel cuore di chi guarda, dimostrando una sensibilità fuori dal comune ed il dono di saper scavare nel profondo di ognuno.

La sua Turandot è metafisica, universale, ed il profumo della Cina appare solo nei costumi, realizzati  con bravura da Danilo Coppola.

Tanti gli spunti, dal popolo vestito di nero, con parrucche afro e  costretto a confrontarsi con la contemporaneità delle consegne a domicilio, traduzione  odierna dell’ineluttabilità della sorte desunta dalla tragedia greca, al nitore degli abiti imperiali, impreziositi o, forse meglio, caratterizzati da una serie di pezzi di porcellana dipinta, quasi i cocci della vita cui Turandot si sente costretta.

Quanta poesia nella sepoltura di Liù, coperta con i frammenti di terracotta  strappati dalle vesti dei presenti, dalle maschere dei consiglieri, quasi che la povera serva sia morta per assicurare la sopravvivenza del sistema o , forse,  con il suo dono d’amore abbia segnato la fine di quel mondo  ricco e crudele, che cannibalizza poveri e ricchi, popolo e regine.

Il gioco di rimandi è raffinatissimo, perché in Oriente il bianco assume significati ben più drammatici che in Europa: ancora una volta le certezze cadono a pezzi, siamo increduli e disorientati, come Turandot di fronte alla scoperta dell’esistenza dell’amore.

Al cadere della porcellana, pian piano inizia un percorso di purificazione che, se l’opera avesse avuto la conclusione prevista da Puccini, avrebbe portato alla scoperta di sé, dell’importanza di saper essere veri e liberi, in definitiva alla scoperta di se stessi.

Certo questa lettura, ancora più efficace di quella di un anno fa, cosi commovente e vera, aveva bisogno di una lettura musicale intensa, profonda.

L’ha trovata nella bacchetta, preziosissima, del Maestro Enrico Calesso.

Il direttore principale del Verdi ha saputo farci dimenticare da subito l’imperioso rumore, verrebbe da dire alle volte scomposto, delle ultime edizioni triestine di questa partitura.

Calesso ha scolpito ogni singolo passaggio, ha raccolto, asciugato, sublimato le frasi, gli accordi, regalando una esecuzione da ricordare.

Intensa, coraggiosa, commovente e vera.

Abbiamo trovato i momenti in cui il Maestro, quasi fosse conscio di stare facendo i conti con  la vita, pare ringraziare i compositori cui era più legato, ma  abbiano anche toccato con  mano quanto fossero evidenti i semi che sapranno raccogliere  Alfano,  Stravinsky , Malipiero, fino al troppo poco ricordato Giancarlo Menotti ed a  Tutino. Senza dimenticare, almeno noi, il grande Raffaello de Banfield.

Tutti artisti dalla forte personalità, assolutamente autonomi, ma non per questo alieni dalla lezione pucciniana: una sorta di viatico per  la libertà espressiva, per la sperimentazione, per la novità.

Calesso ha saputo far emergere tutto questo, con gesto elegante, raffinata misura. Sillabando ogni frase dei cantanti, ma senza coprirli con la sua voce. Trascinando senza saltare. Entusiasmando senza gesti plateali da primadonna in età.

Un piacere, una lezione che ci riporta alle vere grandi bacchette che animavano le serate del Verdi qualche decina d’anni fa: Gavazzeni, de Fabritiis, Molinari Pradelli, Bartoletti, solo per fare i primi nomi che ci vengono in mente fra quelle che abbiamo applaudito di persona.

L’orchestra ci regala un suono misurato, pulito, commovente. Non ci sono volumi strabordanti, neanche nel coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste diretto da Paolo Longo, che pare voler recuperare la cifra di un tempo, ma emergono preponderanti intensità, passione, purezza ed eleganza.

La distribuzione degli strumenti, adattata al sito, esalta, magicamente, alcuni interventi solistici, come quello delle arpe, che aprono ad una dimensione onirica commovente.

Una delle preoccupazioni era proprio la resa dell’orchestra, la sua disposizione, il fatto che il direttore, di fatto, svettasse, non più prigioniero della buca.

Vero che per qualcuno Calesso forse è apparso un ostacolo alla visuale. Ma altresì vero che era un  regalo poter seguire il gesto, l’espressione, intuire il peso delle frasi musicali dall’inarcarsi della schiena, il colore dei passaggi cantati dal volto che si scuriva.

Una prestazione magistrale che lo ha ascritto come vero protagonista della serata, nella quale hanno brillato anche I Piccoli Cantori della città di Trieste diretti con la bravura di sempre da Maria Cristina Semeraro, colonna fondamentale per le produzioni del teatro triestino.

Dal punto di vista delle voci, necessarie delle premesse.

Innanzitutto di grande spessore l’idea di azzerare tutti i cast precedenti.

Per mettere in evidenza che non era una ripresa di qualcosa di già fatto, ma una autentica ripartenza. Utilizzando una base che comunque il bravo Garattini ha saputo riplasmare con misura  e raffinatezza.

Seconda osservazione riguardava la necessità di amplificare le voci.

La scelta è stata fatta con profonda onestà, senza esagerazioni. Le voci non erano ‘falsificate’ e l’amplificazione non le omologava a  standard di gradimento. A ricordare che era un grande spettacolo, ma prima di tutto una serata di autentica musica.

Infine va sottolineato che   le condizioni climatiche erano estreme. A notte fonda si continuava a rimanere  abbondantemente oltre i trenta gradi, con una umidità altissima, che non poteva che mettere  in difficoltà i cantanti che, diciamolo subito, non sono usciti sconfitti dalla prova.

Sono funzionali allo spettacolo il principe di Persia, dotato di volume e colore interessanti, interpretato da Francesco Cortese,  bravo componente del Coro come è apparsa appropriata la  prova delle due ancelle: Vida Maticid  Malnarsic  e Lucia Premel. 

Lussuosa la presenza di Stefano Marchisio come Mandarino. Voce potente, tecnica sicura, colore accattivante, il cantante si riconferma come una delle promesse dell’opera.

Altoum è Gianluca Moro, che regala all’imperatore la sua voce poderosa, fin troppo per un vecchio, ma giusta per i messaggio di rispetto di sé che lancia, inascoltato dal  Calaf di Clay Hilley, tenore wagneriano dalla voce potente, ma non sempre amministrata in modo inappuntabile. Certo il suo è un canto generoso, persino opulento, ma certamente più avvezzo al repertorio tedesco che a quello pucciniano: manca un lavoro approfondito sulla parola, anche la dizione non è sempre puntuale, ma soprattutto la figura del principe ignoto è piuttosto  monolitica, priva di quelle sfumature che il ruolo meriterebbe. In fin dei conti,  secondo alcuni, sarebbe la trasposizione dello stesso Puccini e, se cosi fosse,  saremmo di fronte  alla necessità ad una tavolozza ben più articolata di quanto abbiamo ascoltato. Che comunque è stato ampiamente apprezzato dal pubblico che ha tributato generosi applausi alla fine di ‘Nessun Dorma’ cantato di forza.

Interessantissimo il Timur di Abramo Rosalen. Voce potente, tecnica sicura, anche in questo caso si potrebbe obiettare anche troppo lussuosa per un  monarca decaduto e ridotto in miseria. Ma la scelta di concludere l’opera con la morte di  Liu’ affida a lui la vera chiusura ed il suo timbro e la ricchezza delle sfumature trasformano le parole di Timur in una vera invettiva, una sorta di ‘maledizione di gusto verdiano’, che dà sostanza ad una scelta che dal  punto di vista narrativo lascerebbe monca  la storia.

Un po’ disomogenei i tre consiglieri: Ping, Pang, Pong.

Di innegabile spessore la prova di Marcello Rosiello, che tratteggia un Ping di grande resa, solido nell’emissione, con una estensione omogenea, ricchissimo di colori e sfumature,  capace di tratteggiare immagini di forte presa evocativa, come la  casetta che profuma dei tramonti di Torre del lago e delle battute di caccia di Sor Giacomo. 

All’altezza della parte Enrico Casari, solido nell’emissione, e gustoso della gestualità, mentre piuttosto fragile è risultato Aaron Mcinnis, scenicamente piacevole ed appropriato, ma con un volume poco corposo, tanto che in alcuni momenti  Pong si sentiva   con difficoltà

Liù è la giovanissima Caterina Marchesini, che nelle due arie riesce a tratteggiare alcuni passaggi molto suggestivi, premiati dagli applausi del pubblico.

Infine Turandot: Rebeka Lokar è professionista nota. Da anni frequenta il ruolo ed ormai ha maturato una sua interpretazione, che scenicamente, comunque, ha saputo ben declinare secondo le indicazioni del regista.  Supera  incolume le molte  difficoltà della parte, senza avere il volume opulento della Casolla od il colore  imperioso della Dimitrova e pur non scrivendo una pagina indimenticabile ci consegna una credibile Principessa di ghiaccio.

Qualche considerazione sul fatto che si sia scelto di chiudere l’opera con le ultime note scritte da Puccini. 

Impossibile non domandarsi se la scelta di fermarsi alla morte di Liù sia la migliore possibile, visto che comunque il compositore aveva già abbozzato la conclusione e  che si poteva scegliere fra diversi finali, il  primo  Alfano , il secondo Alfano ed il meno conosciuto Berio.

Certamente, comunque ,  il fatto che nel pieghevole  si sia riportata la trama completa, annunciando  un secondo quadro del terzo atto che ovviamente non ha avuto luogo e che questo reiteri l’errore fatto nel 2023 e puntualmente segnalato allora, dimostra quanto, alla fine, le nostre recensioni siano inutili ed irrilevanti.

Questo, francamente, ci alleggerisce il cuore.

Alla fine meritai ed abbondantissimi  applausi per tutti .

Complimenti alla Fondazione per la scelta coraggiosa, a Garattini Raimondi per saper rendere sempre nuovo ed interessante questo  bell’allestimento ed al Maestro Enrico Calesso, che riesce ad incantare le platee ed a mettere il luce come pochi altri le potenzialità dell’ Orchestra della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

 

Gianluca Macovez

12 luglio 2024

 

 

informazioni

CASTELLO DI SAN GIUSTO – CORTILE DELLE MILIZIE

TURANDOT

Musica di Giacomo Puccini

Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni

Maestro Concertatore e Direttore ENRICO CALESSO

Regia DAVIDE GARATTINI RAIMONDI

Scene e disegno luci PAOLO VITALE

Costumi DANILO COPPOLA

Assistente alla regia e movimenti scenici ANNA AIELLO

Maestro del Coro PAOLO LONGO

Personaggi e interpreti

Turandot REBEKA LOKAR

Calaf CLAY HILLEY

Liù CATERINA MARCHESINI

Timur ABRAMO ROSALEN

Ping MARCELLO ROSIELLO

Pang ENRICO CASARI

Pong AARON MCINNIS

L’imperatore Altoum GIANLUCA MORO

Mandarino STEFANO MARCHISIO

Prima ancella VIDA MATIČIČ MALNARŠIČ

Seconda ancella LUCIA PREMERL

Il principe di Persia FRANCESCO CORTESE

Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

Con la partecipazione del coro I Piccoli Cantori della città di Trieste diretti dal M° Cristina Semeraro

Mercoledì 10 luglio, Venerdì 12 luglio, Sabato 13 luglio 2024 ore 21.15

 

 

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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