Sabato, 14 Giugno 2025
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Il film di esordio “Mangia” di Anna Piscopo è un vero caso cinematografico!

“La Platea” ha intervistato la regista Anna Piscopo, una chiacchierata ricca di spunti profondi e un omaggio sincero a Galliano Juso, produttore del film, purtroppo il suo ultimo.

Abbiamo intervistato Anna Piscopo, regista del film “Mangia”, che esordisce in una pellicola che sta diventando un piccolo caso cinematografico, una commedia grottesca e a tratti amara, sull’isolamento e sulla solitudine, trattata con stilemi contemporanei e di grande impatto visivo.  La storia è quella di Maria, una giovane che cerca di uscire dall’isolamento intimo e sociale in cui si trova, tentando di percorrere la strada dell’arte, ma con scarsi risultati. Il cinema della Piscopo è dirompente e visionario, con chiari riferimenti al cinema neorealista e a quello muto (nel quale la Piscopo riconosce un grande insegnamento). Il film è girato a Catania, una città capitata “per caso”, che però ha accolto pienamente il messaggio che la regista voleva portare, città nel quale la Piscopo ha procacciato buona parte degli attori, spesso persone che vivevano ai margini, svolgendo un’azione significativa di qualificazione sociale.  Un film prodotto da Galliano Juso, il suo ultimo film prima di morire e che, come la regista afferma, ha svolto un’azione di maestro e di padre.

 

Ci racconti la genesi del film?

Il film nasce da un monologo che avevo scritto e portato in scena, lo spettacolo era totalmente diverso dal film, l’unico spunto che abbiamo tenuto è il personaggio di Maria, che però nella piece scappava dalla provincia per venire a Roma. 

 

L’incontro con Galliano Juso è stato fondamentale per la realizzazione del film. Come vi siete incontrati?

Conoscevo Galliano Juso di fama,  lo stimavo molto anche perché sapevo che aveva prodotto Cipì e Maresco che per me sono dei miti assoluti, “Lo zio di Brooklin” è stato uno dei miei film iconici. Poi ci siamo incontrati in un bar in cui andavamo entrambe, il “Salotto 42”in piazza di Pietra a Roma che fino a qualche anno fa era frequentato da svariati artisti.  A quel punto io e Galliano abbiamo riscritto la sceneggiatura, alla quale abbiamo lavorato a quattro mani, visto che lui ha seguito tutto il processo creativo accompagnandomi assiduamente. L’idea era quella di fare una commedia urbana, non volevamo fare un adattamento dello spettacolo, ma costruire una “rappresentazione corale” con più personaggi  che seguissero un certo tipo di tipologia.

 

Si sta parlando del tuo film come fenomeno di produzione a basso costo. E’ così?

Sì, il film è stato fatto con un piccolo budget di soldi pubblici che abbiamo cercato di sfruttare al meglio.

 

Nel film ho trovato dei riferimenti a  Pasolini, a Monicelli, ma anche tracce di film dada, soprattutto nel montaggio. Quale sono i registi che ti hanno ispirato?

Assolutamente come hai citato sia Pasolini, che Monicelli; poi sono stata molto contenta che tanta critica abbia rivisto molti riferimenti al cinema muto, perché è un modello al quale mi ispiro fortemente. Infine una mia grande ispirazione è il  regista  John Waters, rimasto sempre fedele alla ricerca del “buon cattivo gusto” (come lui stesso amava definirlo) al quale mi sono ispirata nella rappresentazione del mio “bar assoluto”. 

 

Per ritornare ai paragoni con il film muto, in effetti in alcune scene la parola pare avere un ruolo assolutamente secondario.

La parola non mi interessa. Quello che mi preme è dare forza alle immagini. La mia sperimentazione viaggia assolutamente in questo senso. 

 

Il tema del cibo è ovviamente centrale dal titolo in poi. E’ un “cibo brutto”, nel senso di poco sano che trafigge nell’utilità di come viene rappresentato. Di cosa è simbolo il cibo nel film?

Il cibo nel film è simbolo di freddezza, di solitudine emotiva e anche in una scena di sfruttamento sessuale. E’ un cibo che non nutre, non fa bene, non crea nessun tipo di comunione, o comunità. Spesso le scene mostrano addirittura i contenitori di alluminio vuoti, a simboleggiare l’estrema solitudine. Non c’è la tavola imbandita, ma c’è l’abbuffata solitaria. 

 

Hai appena citato lo sfruttamento sessuale, che però viene fatto da una donna. C’è una scelta precisa in questo?

Sì, ho deciso di utilizzare una donna per assolutizzare il senso della violenza. Non volevo spingere sullo stereotipo, ma sul senso della violenza. 

 

Parlavamo al cinema della poetica del brutto, le citazioni in proposito sono molteplici dal primo atto del Macbeth dove streghe urlano: "il bello è brutto e il brutto è bello" al saggio di Eco sulla “Bruttezza” e di come se saputa trattare artisticamente divenga una vera e propria opera d’ arte. Cosa è per te il brutto?

Ho spinto sul brutto in tutto, perché per me è il punto dell’universo dove si condensa l’umanità più forte. Un brutto estetico, ma  che richiama alla purezza della compassione.  In tutto ciò che è esteticamente troppo curato io percepisco un’assenza totale di umanità, che non mi stimola nessuno sguardo. 

 

Sei diplomata alla Silvio D’amico, la tua culla è il teatro, come è stato questo approdo al cinema, che canali comunicativi hai messo in atto?

Le differenze tra la scrittura teatrale e cinematografica sono molteplici. In questo caso è stato un processo, e a traghettarmi verso il cinema è stato proprio Galliano, un po’ alla volta. Lavorare con lui è stato estremamente formativo, lui è stata la mia scuola di cinema. Differenze . è stato un processo. Galliano è stato un ulteriore passaggio formativo. 

 

 

Da quello che dici emerge che in Galliano Juso tu abbia in qualche modo rivisto una figura genitoriale. Mi colpisce perché invece nel film le figure dei genitori di Maria sono assolutamente prive di alcun tipo di affettività. 

E’ così, Galliano per me è stato assolutamente una figura genitoriale,  l’incontro con un padre, che ha determinato per me una transizione umana. 

 

Durante la proiezione del film alla quale ho assistito ti hanno chiesto del tuo rapporto con la spiritualità in relazione ad alcune scene in cui la protagonista si affida ad  alcune pratiche di questo genere. In realtà più che attinente a quelle pratiche io ho notato una spiritualità in tutto il film che trascende alcune scene, ma che in realtà è un interrogativo profondo sul senso dello stare al mondo, sulla morte, sulla paura di vivere. E’ così?

Ti confermo che è così. Il senso della morte ha accompagnato il film per tutta la sua stesura. Galliano non stava bene ed è morto esattamente il giorno prima che finissimo di montare. 

 

A proposito di montaggio, è un montaggio assai particolare, come lo hai pensato?

Al montaggio ho lavorato in una prima fase con un ragazzo di 25 anni, bravissimo, Edoardo Viterbori, che collabora con una factory romana di ventenni, la “Millenium cinematografica”. Poi la consulenza successiva è stata seguita da Simone Manetti. Con entrambi abbiamo lavorato a frantumare le scene e mischiare un po’ tutto. Volevamo un montaggio bulimico che raccontasse anch’esso la solitudine emotiva che doveva emergere dal film. 

 

Il film è girato a Catania, hai raccontato più volte di come questa città sia capitata un po’ per caso e che in realtà sia risultata perfetta per l’ambientazione. 

Catania è una città che non conoscevo ed è una città magica, che è risultata perfetta per vestire l’abito della città che immaginavo. Tutto ciò che volevo fare si è realizzato lì. Molti dei personaggi del film sono di Catania e abbiamo lavorato in grandissima armonia. A mio parere anche perché la regia era al femminile. Non ci sono stati mai problemi,  non c’era esercizio di potere. E seppure le difficoltà sono state molteplici è scorso tutto facilmente. 

 

Alcune immagini della città sono assolutamente rappresentative, mi hanno ricordato i luoghi di Linch. Che senso volevi dare allo spazio?

Gli spazi volevo che fossero protagonisti insieme agli attori. Dei luoghi/non luoghi (direbbe Augè) che possano essere spazi non di presenza, ma di indifferenza, che si possono trovare un po’ dovunque, ma che potessero caratterizzare  fortemente le scene. Volevamo una città che uscisse fuori dal regionalismo. La città non solo scenario di una storia. In questo Catania mi ha aiutato moltissimo

 

C’è una forte azione sociale all’interno del film. La presenza di personaggi presi dalla strada, persone spesso deprivate. E’ così?

Sì, volevo che gli attori utilizzati non fossero in nessun modo collegati allo star sistem. Sono quasi tutte persone prese dalla strada, alle quali abbiamo cercato di dare una voce e una possibilità di racconto differente a quello a cui erano abituate. 

 

La colonna sonora a chi è stata affidata?

La colonna sonora è di Tony Esposito, mentre ci sono alcune canzoni di Fabio Abate,  cantautore catanese, che appare anche nel film.  

 

 

Barbara Chiappa

8 giugno 2025

 

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 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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