Sia sulle pagine della nostra autorevole rivista che in ambiti differenti, mi sono spesso ritrovata a riflettere su quanto il Teatro Ragazzi, la Teatroterapia e altrettanto la Logoteatroterapia possano avere un impatto fortemente positivo nei confronti dell’età evolutiva e delle fragilità che essa esprime. Dalla frenesia dei tempi moderni nei quali viviamo all’eccessiva esposizione delle giovani generazioni a beni di consumo quali smartphone e tablet; da modalità educative disfunzionali o quantomeno discutibili alla reclusione dovuta alla scorsa pandemia (e molto altro ancora), molteplici sono le cause di vari disturbi comportamentali che negli ultimi anni tengono in scacco una significativa porzione delle giovani generazioni.
Con il termine “Disturbi del Comportamento” ci si riferisce a quella condizione nella quale bambini e adolescenti mostrano comportamenti aggressivi, difficoltà a regolare le proprie emozioni, scarsa empatia e quasi nullo rispetto nei confronti delle regole fornite dagli adulti. All’interno di questo ampio spettro si colloca il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) che si esprime con comportamenti collerici, aggressivi, polemici e sfidanti. Le sue manifestazioni appaiono in diversi contesti e l’individuo che ne è soggetto è sempre preda di un umore irritabile e denso di emozioni negative (fonte: Muratori, Papini – Erickson 2023).
Damiano, 13 anni. Lorenzo, 12 anni. Elettra, 11 anni. Andrea, 9 anni. Pietro, 6 anni. Mariastella, 5 anni (tutti nomi di fantasia). In differenti luoghi e contesti ho incontrato questi bambini e ragazzi. Di diverse età, differenti percorsi scolastici, diverse famiglie e luoghi di provenienza. Ma avevano tutti un tratto comune: comportamenti oppositivi con i quali relazionarsi con gli adulti, il gruppo dei pari e l’ambiente. Ciascuno di loro esprimeva il disagio in un modo proprio. Lorenzo mostrava rabbia verso tutto e tutti; Damiano tendeva a ritrarsi come un paguro nella conchiglia; Elettra pronunciava in continuazione frasi svalutanti il lavoro e il gruppo dei pari; Pietro dava le spalle o stava tutto il tempo a braccia conserte e gli occhi fissi sul pavimento; Mariastella si rifiutava di dire persino “ciao” a chi la salutava con un sorriso. E così via.
Le singole situazioni sono complesse e non è affatto semplice avere a che fare con un essere umano che non accolga la gentilezza, che derida l’entusiasmo attorno a sé, che risulti spesso impegnato nella pianificazione di piccoli dispetti o che semplicemente non risponda e dia le spalle. Per il trattamento di tali disturbi sono necessari una grande collaborazione tra le varie figure che ruotano attorno al bambino/a o all’adolescente e una notevole dose di pazienza. Già, perché talvolta, con grande impegno e fatica, ci sembra di aver compiuto un piccolo passo in avanti, di aver scalfito almeno in parte quello scudo protettivo tra il/la nostro/a ragazzino/a e il mondo; ma la settimana successiva ci sembra di dover ricominciare da capo, e che il nostro intervento precedente sia stato completamente infruttuoso. E a questo punto, la tentazione di mollare è tanta. Eppure…
Una cosa che continuo a ripetermi in questi casi è che non sarà certo un’oretta di logoteatroterapia a settimana a ribaltare la vita di individui che per primi sono vittime di tale stato. Però, per almeno quell’ora, farò tutto quello che è in mio potere per far vivere loro un momento di serenità, di emozioni positive, e perché no, di divertimento. Grazie agli studi di comicoterapia, non dimentico mai quanto sia forte il potere della risata, dell’autoironia, della sdrammatizzazione. A tutti piace ridere, persino agli individui affetti da DOP.
La formazione da clown fatta in gioventù mi viene presto in soccorso. Le gag di clownerie sono sempre esilaranti per la fascia d’età che va dai 5 agli 8/9 anni. Con i più grandi faccio battute ironiche e autoironiche ma mai sarcastiche o ciniche: ci si può prender in giro con umorismo e leggerezza senza dover essere per forza taglienti o svalutanti. Non solo: il tempo e lo spazio che si vive nel laboratorio teatrale sono differenti dalla realtà. Si crea un tempo “altro” nel quale interpretare personaggi diversi, sperimentare voci e caratterizzazioni fisiche. Una volta in scena, al riparo della finzione, urlare a squarciagola è finalmente permesso, tanto quanto l’essere prepotenti o compiere azioni non socialmente accettabili quali rubare o fare lo sgambetto. È teatro, non ha alcuna conseguenza nella vita reale. Pertanto, ciascuno ha la possibilità di esprimere le proprie spinte aggressive all’interno di un contesto protetto nel quale esse hanno una motivazione, sono inserite in una storia e non verranno mai giudicate o sanzionate. Quindi, dopo i minuti iniziali nei quali tento di allentare le tensioni grazie all’ironia, ecco che ci mettiamo a recitare.
Scopro che a Lorenzo piace l’improvvisazione. A ogni nuovo incontro, gli concedo venti minuti per mettere in scena le situazioni che preferisce. Il mio ascolto e l’approvazione delle sue idee fa sì che il ragazzino a sua volta mi dia credito quando insisto sull’accettazione delle idee dell’altro; sulle azioni congrue; sulla non prevaricazione e la non derisione. Lorenzo comincia ad accettare i miei consigli “scenici” e a guardarmi con maggiore rispetto. Grazie alle improvvisazioni fatte insieme (nelle quali recito anche io, offrendo le mie competenze attoriali per la buona riuscita delle sue idee) il nostro rapporto cresce, si approfondisce. Pian piano Lorenzo cambia atteggiamento. Lo vedo sorridere, non entra più sbattendo la porta e rifilando improperi a chiunque gli capiti a tiro. Inizia a percepire il valore della gentilezza e dell’amicizia. Comincia, pian piano, a mettersi nei panni degli altri.
Anche gli altri a piccoli passi hanno modificato atteggiamento. Ci guardiamo negli occhi, ci sorridiamo. Compaiono piccole azioni di aiuto reciproco, quali il preparare il setting di lavoro o comprare le caramelle per gli amici nei giorni precedenti ad Halloween.
Può sembrare poco, o magari tanto.
A me, a volte, sembra tutto.
Cecilia Moreschi
4 novembre 2024