Giovedì, 18 Aprile 2024
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Ingresso Indipendente, la prima volta di Maurizio De Giovanni

Recensione dello spettacolo Ingresso Indipendente in scena all’Ambra Jovinelli dal 3 al 13 maggio 2018

 

È una favola moderna Ingresso Indipendente, la commedia in due atti scritta da Maurizio De Giovanni, noto ai più per Il Commissario Ricciardi e I bastardi di Pizzofalcone, e diretta da Vincenzo Incenzo in scena in questi giorni all’Ambra Jovinelli. 

Dopo il debutto e il successo al Napoli Teatro Festival due stagioni fa, i presupposti per fare il tutto esaurito anche a Roma non mancano. Basterebbero loro, i nomi di Serena Autieri, Tosca D’Aquino e Fioretta Mari, per riempire la sala. 

Se ad essi si aggiunge una buona fetta di pubblico a cui la comicità spiccia e un po’ triviale, il detto senza troppi giri di parole e le allusioni poco velate piacciono eccome, non resta che affrettarsi. I posti sono limitati.

La storia, con tanto di lieto fine (pure troppo lieto), ha come protagonista Massimo (Giovanni Scifoni), un quarantenne per bene, un po’ impacciato e ingenuo, che, pur di sposare la fidanzata Renata (Tosca D’Aquino) e ottenere l’agognata promozione, cede il suo appartamento per gli incontri “segreti” tra il suo capo Ludovico (Massimiliano Franciosa) e la sua amante Rosalba (Serena Autieri). Tra gli occhi poco discreti della vicina (Fioretta Mari) e alle spalle dell’ignara Giuliana (Biancamaria Lelli), moglie di Ludovico. 

I personaggi, quelli di cui scrive Vladimir Propp in Morfologia della fiaba, ci sono tutti: c’è la principessa (Serena Autieri), c’è l’eroe (Giovanni Scifoni), c’è l’aiutante magico (Fioretta Mari) e c’è l’antagonista (Tosca D’Aquino). 

Ci sono anche una morale e un tempo storico. Un presente in cui il principe non è azzurro e non ha un cavallo bianco, ma balbetta, condivide (a sua insaputa) la futura sposa con l’idraulico e si nutre di false speranze. Un presente in cui la principessa fa la escort, anche se ha una laurea in logopedia, e la strega cattiva è tutta casa e chiesa (almeno così dice). 

E no, non ci sono castelli e draghi sputafuoco, c’è solo un appartamentino, tanto comodo per quel suo ingresso indipendente, e una vicina ficcanaso, spaventosa sì, ma solo perché non esita a imbracciare il fucile al primo rumore sospetto. Non manca neppure l’imprevisto (la cena a sorpresa) per complicare le cose. 

Quello che manca è il ritmo. È l’effetto sorpresa che se, da un lato, spiazza, dall’altro, capovolge il punto di vista dello spettatore, instilla il dubbio, fa riflettere. È l’immedesimazione nei protagonisti e nella storia stessa: non basta raccontare di tradimenti, bugie e matrimoni falliti per generare empatia (storia tra le altre cose trita e ritrita). 

Quello che manca è la magia del teatro che non ha bisogno di effetti speciali o di strizzare l’occhio a musiche latineggianti per strappare una risata e coinvolgere. È la maestria registica che riesce a mettere in risalto le doti interpretative (e non solo canore dell’Autieri per esempio) degli attori in scena, tutti (eccezion fatta per la Mari) appiattiti e privi di sfumature.  

Le buone intenzioni ci sono, c’è anche un messaggio di riscatto morale e di perdono in fondo. 

C’è, però, che si poteva fare di più. Sicuramente. 

 

Concetta Prencipe

6 maggio 2018

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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