Lunedì, 17 Novembre 2025
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Giada Valenti: portabandiera dello spettacolo italiano in U.S.A

Intervista alla cantante, attrice, conduttrice che spopola negli Stati Uniti,  raggiunta durante le vacanze italiane.

In questi giorni di fine estate abbiamo avuto l’opportunità di un incontro speciale: Giada Valenti.

Un nome che in Italia conoscono in pochissimi.

Ma in realtà è una popolarissima primadonna in America. 

Ha recitato a Broadway ; cantato davanti a due Presidenti USA; riempito i principali teatri americani, compreso per due volte la Carnegie Hall; condotto trasmissioni televisive seguite da milioni di persone; lavorato con il produttore di Whitney Houston ; presentato innumerevoli volte la Columbus Day Parade di New York ; duettato con Andrea Bocelli, solo per dire le prime cose che vengono in mente.

Legata profondamente all’Italia ed in particolare alle zone della sua infanzia, dove e’ in questo periodo in vacanza, l’abbiamo incontrata quasi casualmente: era fra il pubblico di alcuni concerti di Giulia D’Andrea, musicista di grande spessore, anche lei più apprezzata lontano da casa che in patria.

Colpisce subito l’atteggiamento con cui la signora Valenti si muove: umile, gentile, sorridente, prodiga di complimenti verso gli artisti, molto disponibile con tutti.

Insomma, nessun divismo, nessun atteggiamento prevaricatore, ma grande modestia, attenzione verso gli altri, voglia di condividere ed il coraggio di gioire per i meriti altrui.

Peraltro, siamo davanti ad una artista di grande personalità.

Dotata  di una voce molto ricca di colori e solida nell’emissione, ha un repertorio decisamente vasto, che ripercorre la musica dal Secondo Novecento, che sa proporre senza forzature, facili effetti vocali o esuberanze vocali: lei è essenzialmente una interprete, che riesce a ‘vestire’ i brani che propone, a farli suoi, a raccontare di sé attraverso le parole di un altro.

Nei suoi spettacoli spesso riprendere canzoni italiane, che trasforma anche con atmosfere jazz; propone pezzi che ha scritto lei; cavalli di battaglia della Piaf e di altri grandi interpreti; brani dei suoi album, con l’obiettivo di creare una particolare atmosfera, nella quale possa specchiare il suo vissuto, cercare di  trasmettere la passione che l’ha spinta a tentare ‘l’avventura americana’, evocare quel bisogno di ‘stare bene’, con se stessi e gli altri, di cui  sempre le parlavano i nonni.

Non cerca note pirotecniche, che peraltro possiede, ma  narrazioni, nelle quali musica e poesia duettino.

Vera ambasciatrice dell’Italia negli Usa, ogni qualvolta le è possibile ricorda il nostro paese e, forte di una popolarità granitica, di cui in Italia si parla pochissima, organizza  eventi per  i suoi fan,  che fa arrivare in quel lembo di terra fra Friuli Venezia Giulia e Veneto dove è cresciuta.

 

Le abbiamo sottoposto una lunga serie di domande, per cercare di conoscerla meglio.

Sapendo che era presa fra prove ed impegni, le abbiamo proposto i di scegliere a quali rispondere. 

Il risultato è che non ne ha saltata nessuna, offrendo ancora una volta una prova di disponibilità e modestia decisamente non comuni.

 

Lei è nata a Portogruaro, bellissima località a cavallo fra Friuli e Veneto ed ha studiato a Venezia.  Nonostante la carriera internazionale ai massimi livelli, cosa di lei è ancora profondamente italiano?

Sono nata a Portogruaro, e quella radice resta sempre dentro di me, anche se la mia carriera mi ha portato in giro per il mondo. Di me è profondamente italiano l’amore per la famiglia, il senso di comunità, il legame con le tradizioni e con i luoghi in cui sono cresciuta. Porto con me la bellezza, la passione e l’emozione che fanno parte della nostra cultura. Credo che il modo in cui interpreto le canzoni e il desiderio di creare sempre un legame autentico con chi mi ascolta siano anch’essi tratti molto italiani: cantare con il cuore, con sincerità e con amore.

 

Comincia a studiare musica molto presto. A sette anni canta e suona il pianoforte. Sicuramente gli stimoli in famiglia c’erano. Ci racconta qualcosa di sua nonna e della sua passione per l’opera lirica?

La mia passione per la musica nasce sicuramente grazie alla mia famiglia. Mia nonna aveva una voce meravigliosa, un soprano lirico mancato: avrebbe potuto avere una carriera, ma la vita l’ha portata a crescere sette figlie. Cantava sempre, e la sua voce riempiva la casa. Mio nonno, invece, era un grande appassionato d’opera: conosceva a memoria tutti i libretti, ma anche le canzonette popolari e le canzoni del Festival di Sanremo.

È stata proprio mia nonna a portarmi per la prima volta a cantare con il coro in chiesa, seduta sulle sue ginocchia…. Ed è stata la nonna a dire ai miei genitori che avevo un dono e che dovevano farmi studiare…la sento sempre presente quando canto….

La  sua  famiglia l’ha sostenuta in questa sua voglia, direi bisogno, di musica oppure era spaventata all’idea di una professione così complessa?

La mia famiglia mi ha sempre sostenuta, perché aveva capito che la musica era ciò che mi rendeva felice, e credo che la ricerca della felicità nella vita sia un valore fondamentale. Allo stesso tempo mi hanno incoraggiata ad avere anche un percorso di studi parallelo, così ho frequentato l’Università di Padova, dove ho studiato psicologia. Nel mondo della musica non esistono certezze, e già da giovanissima avevo sperimentato qualche delusione: purtroppo anche allora il talento non era sempre l’unico elemento determinante per poter crescere artisticamente. Ma anche da bambina, qualche lacrima e poi la passione per la musica prendeva il sopravvento , e continuavo per la mia strada….

 

Parliamo di formazione: ha studiato a Venezia ed al Conservatorio di Trieste. Come sono stati quegli anni? 

Il mio percorso musicale è iniziato prestissimo con lo studio del pianoforte alle Fondazione Santa Cecilia di Portogruaro, è proseguito al Conservatorio di musica Giuseppe Tartini di Trieste e si è completato con l’approfondimento del jazz a Venezia. Riconosco di non essere stata una studentessa modello: ero animata da una grande creatività e dal desiderio irrefrenabile di cantare, senza voler rispettare troppi confini accademici. Con il tempo, però, ho imparato ad apprezzare profondamente la musica classica e l’opera, che allora percepivo come troppo rigide. Oggi sono grata di averle studiate, perché mi hanno dato le radici indispensabili per affrontare ogni repertorio.

 

In Italia la situazione per gli studenti di conservatorio è piuttosto complessa.  Ci sono ampie discussioni fra chi dice che il mondo del teatro sia in mano ai soliti nomi e chi pensa che quello che insegnano i conservatori sia lontano dalle esigenze reali del palcoscenico. Ha qualche consiglio per gli studenti italiani?

Questa è una domanda complessa, una situazione che forse è così da sempre. Molti grandi artisti sono stati autodidatti: il talento è un dono, non si insegna. I conservatori dovrebbero aiutare a coltivarlo e a preparare al palcoscenico, che richiede molto più della tecnica: richiede passione, umiltà, coraggio, gratitudine e la capacità di donarsi completamente al pubblico.

Da vent’anni vivo e lavoro negli Stati Uniti, dove la mia gavetta è stata dura ma piena di opportunità: lì senza talento non vai avanti. In Italia, da giovane, ho provato delusioni perché non avevo le “amicizie giuste”, ma non mi sono mai arresa. Non mi sono pianta addosso: ho cercato altre strade, nuove opportunità, sempre con devozione e umiltà.

Agli studenti direi che il talento da solo non basta: bisogna avere pelle dura, curiosità e la forza di uscire dalla comfort zone, perché è lì che nasce la vera magia. Non abbattersi mai, vedere un “no” come l’occasione per un nuovo inizio e per crescere. E soprattutto, restare se’ stessi, con i propri sogni e la propria autenticità. Io ero vicinissima a partecipare a Sanremo, ma se lo avessi fatto forse non avrei girato il mondo, non sarei dove sono oggi e, soprattutto, non sarei la persona che sono diventata.

È triste vedere che nei teatri e in televisione spesso ci siano sempre le stesse persone: posso immaginare che sia difficile e frustrante. Ma la passione non la ferma nessuno, e oggi abbiamo tanti modi per farci conoscere. Se uno eccelle, prima o poi viene notato. Ai ragazzi direi: partecipare è importante, ma il vero sogno dev’essere vincere, non per vanità, ma perché bisogna davvero volerle le cose per essere grandi artisti.  

Mai smettere di crederci, continuare a migliorare sempre, avere sogni enormi così che le difficoltà non li annebbino mai. Essere sicuri di sé stessi senza mai cadere nell’arroganza, e amare profondamente il pubblico, perché sono loro che ci permettono di fare ciò che amiamo. Queste sono cose che forse dovrebbero essere insegnate nei conservatori, ma che spesso si imparano solo sul campo. Perché per sopravvivere e vivere davvero d’arte si fanno sacrifici enormi… e almeno i veri artisti lo sanno bene. E nessuno di loro lo ha imparato a scuola.

 

Ritorniamo alla sua infanzia E ‘stato difficile coltivare la passione per la musica, vivendo in una realtà come Portogruaro, importante storicamente, ma comunque decentrata,?

No, non è stato difficile. Mi sono sempre mossa seguendo le opportunità che mi permettevano di portare avanti la mia passione, ma è meraviglioso sapere di appartenere a un piccolo mondo che rimane sempre tuo, anche quando diventi una cittadina del mondo e ti senti a casa ovunque. Portogruaro per me è speciale: è la radice che porto nel cuore, il punto da cui tutto è iniziato e a cui torno sempre con gratitudine.

 

La famiglia italiana tipo è certamente diversa da quella americana. Sicuramente più protettiva, ma anche più presente, alle volte perfino troppo per una persona indipendente e con tanti sogni. Cosa si è portata dietro, in America, delle tradizioni nostrane?

Quello che mi sono portata dietro è soprattutto il senso profondo della famiglia. Crescendo in Italia ho imparato che la famiglia è il centro, il luogo dove trovi sempre sostegno, amore e anche protezione. Negli Stati Uniti ho portato con me questa tradizione: il legame con i miei genitori, con le mie radici, con i valori dell’accoglienza e della convivialità. È qualcosa che si riflette anche nella mia musica, perché sul palco cerco sempre di creare lo stesso calore e la stessa vicinanza che ho respirato nella mia famiglia italiana. 

 

A Venezia c’è stato anche il primo incontro con il Jazz. Come è andata?

Dopo aver studiato musica classica e lirica, che per me a quel tempo erano un po’ troppo “strette”, sentivo il bisogno di qualcosa che mi permettesse di essere più libera, più espressiva. E lì ho trovato il jazz: una musica che ti lascia respirare, che ti dà spazio per mettere dentro tutta la tua personalità. È stato come aprire una finestra: ho capito che quella libertà poteva diventare parte del mio modo di cantare e di stare sul palcoscenico. Ne ho fatto dono, ma io non mi considero una jazzista, assolutamente no. Sono un’artista che ama mescolare linguaggi diversi: dal pop al rock, dal jazz al country, dalla musica latina a quella francese che adoro, fino a unire la musica del passato con quella di oggi. In America spesso scrivono di me che sono un’eclettica interprete di canzoni d’amore, ed è vero: per me la musica non si divide in generi, ma solo in due categorie, bella o brutta.

Quello che mi ha sempre guidata è il desiderio di raccontare storie. Una canzone, per me, non è solo melodia o virtuosismo vocale, ma un racconto fatto di emozioni. Se la storia che porta con sé mi tocca, io la prendo, la trasformo, la adatto al mio stile e la offro al pubblico come se fosse stata scritta per me. Forse è per questo che spesso mi dicono che riesco a far percepire brani famosissimi come nuovi, freschi, sorprendenti.

Questo modo di intendere la musica l’ho perfezionato anche grazie all’incontro con Larry Moss, uno dei più grandi acting coach del mondo, che mi ha insegnato che cantare non significa semplicemente intonare delle note, ma comprendere il senso profondo di un testo e trasmetterlo con sincerità e autenticità. 

 

Lei ha lasciato presto l’Italia e prima di approdare negli Usa ha lavorato in mezza Europa. Ci ricorda i suoi esordi e come arrivò a vincere "Sanremo Nuovi Talenti nel Mondo"?

Mi ero appena sposata, giovanissima, e forse in quel momento pensavo che avrei lasciato la musica per dedicarmi a fare la moglie, magari la mamma. In realtà non ho mai deciso di fare la cantante o la musicista“di mestiere”: io ho sempre voluto, semplicemente, essere felice.

Seguendo questa ricerca della felicità ho seguito mio marito in Olanda. L’avevo conosciuto in Svizzera, dove cantavo nei mesi invernali mentre studiavo psicologia all’università. Proprio in Olanda, un amico di mio marito seppe che stavano cercando una cantautrice per rappresentare il Paese a Sanremo Nuovi Talenti nel Mondo. Io avevo appena scritto una canzone per la mia storia d’amore, Solo con Te, e decisi di partecipare.

Non era nulla di programmato. Ma vinsi e e da lì arrivò anche un contratto discografico con la BMG, con cui pubblicai diversi singoli e un album che ebbero successo e mi diedero un po’ di notorietà. È stata un’emozione grandissima, perché quella vittoria mi fece capire che la mia musica poteva davvero parlare a un pubblico internazionale. E mi preparò, senza che lo avessi pianificato, ad altri grandi salti… sempre seguendo la mia felicità.

 

Quanto è importante, per un giovane artista, fare la gavetta? E quale è stato il momento in cui ha avuto la sensazione di avere fatto il salto per entrare a pieno titolo nel mondo della grande musica?

La gavetta è fondamentale: ti insegna disciplina, resilienza e soprattutto umiltà. Io ne ho fatta tanta, prima in Europa e poi negli Stati Uniti, e se oggi sono quella che sono lo devo anche a quei piccoli palchi e alle difficoltà incontrate lungo la strada. Oggi molti ragazzi diventano famosi passando direttamente dai talent show: sembra bellissimo, ma ai primi problemi spesso cedono, entrano in crisi e qualcuno cade persino in depressione. Come ha detto Madonna, se inizi già dall’alto — con luci, orchestra, trucco, tour e successo immediato — quando l’eco del programma svanisce non resta che scendere. E senza la forza che ti dà la gavetta, rialzarsi diventa quasi impossibile.

Per me il vero salto è arrivato quando il mio show televisivo From Venice With Love è andato in onda sulla PBS, raggiungendo milioni di persone. Da lì sono seguiti traguardi indimenticabili: due concerti alla Carnegie Hall, un tour di 20 date negli Stati Uniti, l’album natalizio con la Royal Philharmonic Orchestra registrato ad Abbey Road con Robert Ziegler, duetti con Vince Gill, Trace Adkins, Johnny Reid e persino il privilegio di condividere il palco con Andrea Bocelli. Ho cantato davanti al Presidente Barack Obama e al Vicepresidente Joe Biden, inciso con musicisti straordinari come Nathan East, Gregg Field, Jorge Calandrelli, Shelly Berg, Chris Walden, Anthony Wilson e Tariq Akoni — artisti immensi che oggi considero anche amici.

Sono tutte esperienze che porto nel cuore, ma non mi sento “arrivata”: ho ancora tanti sogni. Credo che questo cammino infinito, questa ricerca di nuove emozioni, sia ciò che tiene vivo l’animo di noi artisti. E quello che non abbiamo ancora vissuto, lo immaginiamo sempre ancora più bello. Forse la gavetta non finisce mai . 

 

Agli inizi firmava i suoi lavori con il nome anagrafico: Cristina.  Quando arrivò in America, invece, scelse di farsi chiamare Giada, rinunciando peraltro alla popolarità che si era conquistata lavorando duro fino a quel momento. Come mai una scelta così forte?

Quando sono arrivata in America, invitata da Clive Davis, lui mi disse che avevano già Christina Aguilera e Christina Milian sotto contratto e che serviva un nome diverso. Amava la mia voce, che definì “enchanting”, ma il nome doveva cambiare. Così scelsi Giada: piaceva molto anche a lui, anche se il suo preferito era Sophia… io però non lo sentivo mio, e alla fine optammo per Giada.

È stata una decisione forte, perché significava rinunciare alla popolarità che avevo conquistato in Olanda e ricominciare davvero da zero. Ma era un’occasione unica. Due anni fa, comunque sono tornata in Olanda, partecipando a Holland’s Got Talent: con la mia Blind Audition ho cantato A Te di Jovanotti, canzone molto amata lì anche nella versione olandese, ed emozionai persino il giudice più severo che mi disse: “Non so perché, ma la tua voce mi è arrivata al cuore.” Le sue lacrime fecero molto parlare e mi hanno ridato anche un po’ di notorietà, riunendomi con tanti miei vecchi fan e portandone di nuovi.

Il nome è solo un nome: io sono sempre la stessa. Ma Giada Valenti, per me, è diventato quasi un super power, lo porto con orgoglio ….

 

Nel 2001 esce un EP con 5 canzoni : "Italian Signorina", con tre titoli scritti da lei e due pagine di grande musica italiana : ‘Caruso’ e ‘Quando quando quando’. Già da quella prima raccolta paiono emergere forti due linee guida del suo lavoro: la grande personalità e la passione per la canzone italiana evergreen. Si riconosce in questa interpretazione? Ma soprattutto, come presenterebbe il suo stile?

Sì, mi riconosco molto. Ho sempre voluto unire i classici internazionali a quelli italiani, portando nel mondo anche le perle dei grandi cantautori meno conosciuti. E anche raccontare storie con le mie canzoni e farle diventare parte della vita del mio pubblico. Italian Signorina è stata la canzone che mi ha fatto notare da Clive Davis… e proprio in questi giorni verrà ad un mio concerto in Italia una coppia che festeggia il loro anniversario: la loro canzone è proprio Italian Signorina. Per me non c’è riconoscimento più bello. Pensa e’ anche la prima canzone che ho scritto in Inglese e che ho scritto per gioco alle 4 del mattino in Danimarca scherzando con dei musicisti danesi di musica jazz….

 

Da vent’anni lei è una protagonista della scena newyorchese. Come sono stati gli esordi americani? Quali le prime tappe determinanti?

Gli esordi a New York non sono stati facili: arrivare in una città così grande non è mai semplice. Ma ho trovato subito un pubblico che ha apprezzato la mia autenticità e l’amore con cui porto la musica italiana e non solo sul palcoscenico. Le tappe determinanti sono state il mio primo sold out a The Cutting Room, l’organizzazione di piccoli concerti, e poi lo speciale televisivo From Venice With Love su PBS, che ha fatto conoscere la mia musica a milioni di persone in tutti gli Stati Uniti.

All’inizio ho fatto davvero tutto da sola insieme a mio marito JJ: dall’organizzazione alla raccolta fondi per realizzare lo speciale televisivo, fino alla gestione di ogni dettaglio. Oggi ho un agente che mi segue, ma quei primi anni sono stati una vera palestra di vita e di resilienza.

È stato un lavoro enorme, ma anche il trampolino che mi ha aperto le porte della Carnegie Hall e di tanti teatri in giro per gli Stati Uniti. Sono passati oltre vent’anni di lavoro intenso, e questa avventura continua ancora oggi, con la stessa passione di allora e nuovi sogni da inseguire.

 

Dal 2005 si è esibita durante la parata del Columbus Day a New York City, la più importante manifestazione  dell’anno negli USA, una occasione simbolicamente pregna di significati, alla quale partecipano i più grandi artisti del mondo. Come è stato essere incoronata come una protagonista della scena americana?

Cantare Caruso alla Columbus Day Parade del 2005 è stata un’esperienza che porterò sempre nel cuore. Faceva freddissimo, indossavo solo un vestitino leggero, eppure in quei tre minuti mi sembrava di volare: la Quinta Strada gremita, milioni di persone davanti alla televisione, tutte a celebrare la cultura italiana in America ed io a cantare un pezzo di Lucio Dalla amato nel mondo. 

Da allora ho continuato a esibirmi alla Parata quasi ogni anno se ero libera e oggi ho persino l’onore di esserne una delle presentatrici per ABC7. A volte mi sembra incredibile: da Portogruaro al cuore di New York, con la mia musica a fare da ponte tra due mondi.

È un onore immenso, lo racconto spesso agli amici, ma credo non sia facile da capire fino in fondo quanto tutto questo sia incredibile per me.

 

Gli esordi americani ed il successivo grande successo sono legati ad una figura mitica per gli addetti ai lavori, ma non molto noto al grande pubblico: Clive Davis. Ci racconta qualcosa di lui? 

Clive Davis è una figura leggendaria dell’industria musicale: ha lanciato carriere incredibili, da Whitney Houston a Christina Aguilera, da Alicia Keys a Barry Manilow, da Santana a Aretha Franklin. È un uomo di poche parole, ma ogni sua parola pesa. 

Quando mi ascoltò la prima volta disse che la mia voce era “enchanting”, incantevole, diversa unica, subito riconoscibile — e questo per lui era fondamentale. Essere notata da lui e invitata a New York a lavorare con il suo team è stato per me un onore immenso, un vero punto di svolta nella mia carriera.

Mi mandò a prendere lezioni con William Riley, uno dei vocal coach più stimati di New  York, che aveva seguito il presidente Bill Clinton quando ebbe problemi alle corde vocali, oltre a star come Shakira, Céline Dion e la cantante latina Thalía, che incontravo spesso in sala d’attesa insieme al marito, il famoso Tommy Mottola. Dovevo perfezionare il mio accento senza perderne la naturalezza, e lavorare con Riley fu un’esperienza preziosissima.

Clive voleva anche che scrivessi musica con autori americani. Non lo si vedeva spesso, ma la sua visione e il suo sostegno hanno segnato profondamente il mio percorso artistico. È stato un arricchimento vero, una pura carica di believe in yourself che porto con me ancora oggi.

 

Nel 2010 arriva a Broadway con un suo show: ‘An Evening with Giada Valenti’. Che differenze ci sono fra il modo di fare spettacolo in Italia ed in America?

In realtà il mio debutto a Broadway fu al Feinstein’s, uno dei cabaret più esclusivi di New York, che oggi purtroppo non esiste più. Lo show si intitolava The Great European Diva ed era uno spettacolo che avevo scritto insieme alla mia stage director Vicki Stewart, una veterana del cabaret arrivata a New York da Londra negli anni ’70 per lavorare con Perry Como. Era un tributo alle grandi dive europee — Shirley Bassey, Edith Piaf, Dusty Springfield, ma anche Mina e Ornella Vanoni — raccontando le loro vite e carriere, intrecciate con la loro musica.

A New York c’è una grande tradizione di cabaret teatrale, dove lo spettacolo è concepito come una fusione di musica e storytelling: non solo concerti, ma esperienze narrative ed emozionali che coinvolgono il pubblico. In Italia questo approccio è meno diffuso: spesso si punta più sul concerto in sé e meno sul racconto.

Ma alla fine credo che il pubblico sia ovunque lo stesso :  sta all’artista saper dare emozioni vere, capaci di arrivare al cuore. E quando questo accade, le differenze si annullano …

 

Fra i tanti spettacoli che lei ha interpretato, c’è anche il musical dedicato a Mario Lanza, un tenore che ebbe maggior popolarità in America che in Italia. Qualcosa del genere è accaduto a lei, che in Italia è meno famosa che  negli Stati Uniti. Com’è il suo rapporto con il suo paese d’origine , cosa le manca del Belpaese?

Sì, fra i progetti più speciali c’è stato proprio il musical dedicato a Mario Lanza, prodotto da Phil Ramone, una vera leggenda della musica, e da Sonny Grosso, celebre produttore cinematografico e mitico detective della Polizia di New York a cui si ispirò Il braccio violento della legge. Purtroppo, quello spettacolo non arrivò mai a Broadway, ma fu un’esperienza straordinaria: un cast incredibile e la possibilità di lavorare accanto a due grandi uomini che diventarono per me anche cari amici.

Beh si, un po’ come accadde a Mario Lanza, anch’io ho trovato più popolarità in America che in Italia. Ma il mio rapporto con il Belpaese resta profondissimo: l’Italia è radici, famiglia, identità. Mi mancano i nostri borghi, il cibo, il calore delle persone, e quelle piccole cose quotidiane che ti fanno sentire a casa. Posso vivere e lavorare dovunque, ma l’Italia rimane sempre parte di me e del mio cuore. Grazie a te per avermi scoperta e per questa intervista….magari e’ l’inizio di qualcosa anche in Italia. 

 

Viceversa cosa le piace di più del vivere e lavorare in America?

Dell’America mi affascina la mentalità. C’è una cultura del “si certo , si può fare”, un entusiasmo contagioso che ti spinge a credere nei tuoi sogni e a non avere paura di tentare. Certo, la competizione è enorme, ma c’è anche più meritocrazia: se hai talento e lavori sodo, prima o poi qualcuno ti nota. Qui le opportunità vengono offerte a tutti, ma poi bisogna dimostrare di valere, altrimenti non si va avanti.

Fu così anche quando chiesi di cantare a un prestigioso evento al Plaza Hotel di New York. Il presidente dell’organizzazione accettò, ma mi disse: “Ricordati che se non sai cantare io farò una brutta figura, ma per te sarà la fine qui a New York, perché ci sarà tutta la comunità italiana e italoamericana presente.” Andò benissimo, lui divenne un grande amico e per me fu l’inizio della carriera.

Mi piace anche la libertà creativa, la possibilità di reinventarsi ogni volta, di sperimentare. E amo la generosità delle persone e il loro supporto all’arte e agli artisti: chi viene dal niente in America non dimentica, e spesso “gives back” alla comunità. Lo trovo bellissimo, e potrei raccontare tante storie di generosità ricevuta anch’io per realizzare alcuni dei miei spettacoli. È una mentalità davvero fantastica, che ti fa sentire parte di un sogno più grande.

 

A quale  dei suoi spettacoli  è più legata? Ce n’è qualcuno a cui , col senno di poi, avrebbe preferito non partecipare?

Li amo tutti, ogni spettacolo è un pezzo della mia vita e del mio percorso artistico. Forse, se devo scegliere, ho una piccola preferenza per From Venice With Love, perché grazie alla sua trasmissione sulla televisione americana mi ha aperto tantissime porte. Molto speciali per me sono stati anche i due spettacoli alla Carnegie Hall, Amore & Amor, che erano un tributo alla musica italiana e latina.

Amo anche quello che sto portando nei teatri, Il cuore italiano della musica americana, perché mi riempie di orgoglio, e Songs from the Movies, perché adoro la musica del cinema e il cinema stesso.

Più che uno spettacolo a cui non avrei voluto partecipare, ce n’è uno a cui col senno di poi avrei voluto dire “sì”: la parte di Esmeralda nel musical di Riccardo Cocciante Notre Dame de Paris in Olanda, che poi mi avrebbe portato anche in Italia. Forse quello è l’unico piccolo rimpianto. Avevo i miei buoni motivi per dire di no, ma forse avrei dovuto dire di si. 

 

La sua carriera è costellata di grandi incontri e collaborazioni preziose. Ci racconto qualcuno che l’ha colpita in modo particolare, soprattutto per l’umanità?

Tutti gli incontri della mia carriera mi hanno lasciato qualcosa di speciale, quindi è difficile menzionarne solo uno. Ma mi viene in mente cosi di getto il bassita Nathan East e l’attore Joe Mantegna.

Nathan è uno dei più grandi musicisti al mondo, eppure con lui e la sua famiglia ho sempre sentito un rapporto vero, sincero, quasi familiare. Una delle sue sorelle è addirittura una mia super fan! Con persone così ti rendi conto che il talento può andare di pari passo con la semplicità e la generosità.

E poi c’è Joe Mantegna, che ha un amore profondo per Venezia. Quando ci siamo conosciuti mi ha fatto subito sentire accolta, presentandomi anche amici suoi che vivono a Venezia e con cui sono rimasta in contatto. Addirittura, quando mi conosceva appena, mi scrisse una lettera di raccomandazione per la mia Visa americana, garantendo per me: un gesto che non dimenticherò mai. Anni dopo, quando vide il mio From Venice With Love in televisione, mi chiamò per dirmi quanto fosse felice per me.

Sono persone così a ricordarmi che, nonostante la fama e il successo, ciò che resta davvero è l’umanità e la capacità di farti sentire “uno di loro”.

 

Ci sono stati personaggi che sono risultati assolutamente differenti, nel bene e nel male, da quello che si aspettava? 

Più che persone diverse da come me le aspettavo, direi persone che si sono rivelate molto più speciali di quanto potessi immaginare. A parte Joe Mantegna e Nathan East, che sono ormai parte della mia vita, penso subito a Phil Ramone. Nonostante i suoi 14 Grammy Awards e le collaborazioni con giganti come Billy Joel, Paul Simon, Barbra Streisand, Frank Sinatra e Luciano Pavarotti, era una persona di un’umiltà incredibile. Ricordo che si fermava per strada a fare i complimenti ai musicisti di strada di New York, e che si commuoveva ogni volta che cantavo Caruso, perché gli ricordava Pavarotti, di cui aveva prodotto tutti i progetti Pavarotti & Friends.

Un altro incontro indimenticabile è stato con Tony Bennett. Mi incuteva così tanto rispetto che quasi non riuscivo a parlare in sua presenza. Credo fosse uno dei più grandi cantanti che io abbia mai visto: amava il suo pubblico con tutto se stesso e, fino all’ultimo concerto che ho avuto la fortuna di vedere a Las Vegas prima del suo ritiro, aveva negli occhi quel fuoco per la vita e per la musica che lo rendeva unico.

Nel male… purtroppo potrei dire qualche artista italiano. Non sapendo chi fossi, alcuni si sono comportati con arroganza e snobismo. E trovo che sia un vero peccato, perché la grandezza di un artista dovrebbe stare prima di tutto nell’umiltà. 

 

Quanto è difficile riuscire a mantenere la propria personalità in un mondo come quello dello spettacolo? Ha delle strategie per sopravvivere alle richieste di teatri, televisioni, pubblico, agenti?

Mantenere la propria personalità in questo mondo non è semplice, perché tutti — teatri, televisioni, agenti, persino il pubblico — cercano di dirti chi dovresti essere o cosa dovresti fare perché’ bisogna vendere biglietti.  Io credo che la strategia più importante sia non dimenticare mai chi sei e da dove vieni.

Per me significa ricordarmi sempre delle mie radici italiane, dei valori che ho imparato in famiglia: umiltà, rispetto, gratitudine. Certo, ascolto i consigli, ma alla fine seguo ciò che sento nel cuore. La musica è sincerità: se provi a essere qualcun altro, il pubblico lo percepisce subito.

Non è facile, perché a volte dire “no” costa caro. Ma preferisco perdere un’occasione che perdere me stessa. Potrei forse lavorare anche di piu’ nei teatri se per esempio scegliessi un singolo artista e ne facessi uno show di tributo, magari anche cercando di vestirmi , cantare o muovermi come il personaggio in questione. Lo trovo orrendo non e’ arte per me, e’ quasi una carnevalata. Ma quello dei tribute act e’ molto di moda al momento. Ma io non seguo le mode . Quindi la mia vera strategia è questa: restare fedele a me stessa, ai miei sogni e alla mia autenticità. È l’unico modo per resistere e, soprattutto, per essere felice.

 

 

Come ci si sente a partire da Portogruaro e ritrovarsi a cantare davanti ad Obama?  Dopo un po’ tutto diventa normale o si ha la sensazione di vivere in una sorta di favola?

Partire da Portogruaro e ritrovarmi un giorno a cantare davanti al Presidente Barack Obama  e a 3000 persone a Washington intonando il nostro Inno Nazionale Italiano e quello Americano, è stato come vivere in una favola. Un’emozione immensa, di quelle che non diventano mai “normali”.

Ma anche oggi, dopo tante esperienze, mi sento sempre quella ragazza di Portogruaro con i suoi sogni, e forse è proprio questo che rende speciale tutto: continuare a stupirmi come la prima volta.…

 

 

Fra i tanti artisti che ha conosciuto, ce n’è qualcuno che secondo lei avrebbe meritato maggior successo e che le fa piacere ricordare qui? Il mondo dello spettacolo americano  ‘macina’ gli artisti o c’è  ancora quel rispetto , quella stima che abbiamo l’impressione che spesso in Italia vacilli?

Mi viene in mente il mio amico Clint Holmes. È uno dei cantanti più bravi che abbia mai conosciuto, un vero storyteller sul palcoscenico. È stato nominato a due Grammy ed era il cantante preferito di Al Jarreau, eppure credo che avrebbe meritato di essere conosciuto in tutto il mondo, soprattutto nel panorama del jazz. È famoso ma potrebbe e dovrebbe esserlo di più.

Quanto al mondo dello spettacolo americano, certo, anche li’ può sembrare che “macini” artisti: è un ambiente competitivo e durissimo. Ma ho trovato che, a differenza di quanto accade spesso in Italia, negli Stati Uniti c’è ancora un grande rispetto per chi fa musica, per chi si dedica con passione e professionalità alla propria arte. Non importa se sei una superstar o un artista di nicchia: se sei bravo, la gente ti riconosce e ti sostiene.

 

Lei ha cantato in tanti paesi del mondo. Ci sono differenze fra i pubblici dei vari paesi?

Ogni pubblico ha il suo carattere. In America cambia da città a città: a New York è sofisticato e molto attento, a Las Vegas più caloroso e spontaneo, a Nashville appassionato e quasi religioso nell’ascolto. Anche in Europa è diverso: in Olanda il pubblico è riflessivo e silenzioso, in Italia più immediato e caloroso, in Inghilterra entusiasta ma composto.

Alla fine, però, il pubblico è sempre meraviglioso: se dai tutto te stesso, il pubblico lo sente e restituisce con grandi applausi. Gli encore e le standing ovations non sono mai scontati: ogni volta sono un dono che mi emoziona come la prima.

 

La sua voce è di grande personalità: omogenea nella tessitura, ricca di colori, con fiati di grande portata , porta con raffinatezza, capace di raffinati virtuosismi senza scivolare mai in forzature o gigionerie. Quanto tempo dedica allo studio? I cantanti lirici per mantenere la qualità dello strumento vocale si sottopongono a vere torture: zitti il giorno dello spettacolo, in scena senza cena, niente alcolici, menu’ leggerissimi, mai aria condizionata e così via. Lei  può permettersi qualche trasgressione ? ha delle regole che segue con rigore?

Grazie per i bellissimi complimenti. In realtà dovrei dedicare molto più tempo agli esercizi vocali, ma la verità è che l’unica regola che seguo con costanza è non mangiare nelle due o tre ore che precedono il concerto, bere tanta acqua e un po’ di tè caldo. Per il resto… canto.

Spesso mi capita di cantare quasi tutto lo spettacolo già durante il soundcheck e poi ripeterlo la sera. Credo che la mia voce resti allenata grazie alla tecnica che ho acquisito negli anni, anche se non è certo un metodo che consiglierei a tutti.

Phil Ramone una volta mi disse che anche Barbra Streisand faceva esattamente così: questo mi ha fatto sentire subito meno in colpa! (sorride)

 

 

A proposito di colleghi e sottolineata la particolarità della sua voce, ci sono dei cantanti cui pensa di essersi ispirata?

Più che parlare di ispirazioni dirette, direi che ci sono state artiste che ho amato e che mi hanno fatto innamorare della musica. Da bambina ascoltavo Edith Piaf, Mina e Ornella Vanoni, e ancora oggi le adoro. Poi sono arrivate Barbra Streisand ed Ella Fitzgerald, che per me resta la voce con la dizione più perfetta: ogni volta che affronto un suo brano torno ad ascoltarla. Ho amato la dolcezza di Karen Carpenter, la poesia e il coraggio di Joni Mitchell, la chiarezza con cui Fiorella Mannoia canta ogni parola.

E poi ci sono Stevie Nicks con la sua aura magica e inconfondibile, Dolly Parton, regina assoluta del country e grande autrice, e Celine Dion, che considero la regina del belting, con tecnica, cuore e personalità straordinarie. Tutte loro, in modi diversi, hanno alimentato la mia passione e il mio amore infinito per la musica.

 

Si sente più a suo agio come interprete o come cantautrice? 

Cantare per me significa interpretare storie in musica. La magia delle grandi canzoni è che raccontano esperienze di chi le ha scritte, ma permettono a chi le interpreta e a chi le ascolta di immedesimarsi e viverle come proprie. Per questo non vedo una distanza netta tra interprete e cantautrice: entrambe le dimensioni fanno parte di me.

Quando canto i miei brani è diverso, perché lì metto in gioco la mia vita, i miei sentimenti più profondi. A volte non è facile, perché riaffiorano emozioni intense o dolorose, e capita persino che mi dimentichi i miei testi — proprio perché penso troppo a ciò che li ha ispirati.

Quindi, se devo dare una risposta, direi che mi sento a mio agio in entrambe le vesti: interprete e cantautrice. Due anime diverse, ma che insieme raccontano chi sono davvero.

 

 

Con che criterio sceglie i brani da interpretare?  Sceglie in prima persona o ha un team che la aiuta?

Non canto mai canzoni che non sento mie: non è questione di genere, ma di storia. Forse è una scuola americana quella di chiedersi sempre perché canti un brano e come lo racconti. Perché alla fine, se vuoi solo musica, accendi Spotify… ma un concerto è uno spettacolo, un viaggio emotivo.

Molti dei miei concerti li preparo da sola, creando un filo narrativo, ma adoro collaborare con chi ne sa più di me: resto sempre aperta a nuove idee, cercando di migliorare e perfezionare. È questo che rende ogni spettacolo unico.

 

 

Chi le piace ascoltare nel tempo libero?

Ascolto davvero tante cose diverse, dipende molto dal mio stato d’animo del momento. Amo la musica classica, soprattutto Chopin, che è il mio preferito, ma ascolto anche artisti come Sting, che trovo semplicemente magico. A volte mi piace riscoprire la musica degli anni ’70, sia italiana che inglese, o gli anni ’80 quando voglio un po’ di leggerezza e allegria.

Adoro la musica country americana: i grandi come Willie Nelson e Dolly Parton, ma anche gruppi più attuali come i Little Big Town o il mio caro amico Vince Gill. E poi c’è la chanson francese, che per me resta un mondo di poesia e raffinatezza. E adoro i cantautori Italiani.  E la musica spagnola che trovo cosi romantica perché’ ha ancora le vecchie sonorità della musica Italiana del passato. 

Insomma, il mio tempo libero è una colonna sonora sempre diversa: la musica, per me, non ha confini.

 

Lei ha collaborato con tanti nomi importanti della scena internazionale. Fra gli altri Bocelli. Come è cantare al fianco di un artista così conosciuto e con una vocalità così particolare, a cavallo fra lirica e pop?

In Italia forse non ci si rende davvero conto di cosa rappresenti Andrea Bocelli nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti: ha creato una sorta di magia intorno alla sua persona e al suo nome. La sua vocalità, a metà tra pop e classico, è bella e riconoscibile, anche se a volte criticata da alcuni puristi della lirica, tenori e soprani molto conosciuti che magari lo giudicano con parametri diversi. Ma la verità è che la musica arriva in tanti modi: non sempre sono le perfezioni tecniche a toccare il cuore, a volte lo fanno proprio le imperfezioni. 

Con me è stato di una gentilezza straordinaria, l’ho trovato gentile, chiacchierone, simpatico,  la sua famiglia altrettanto accogliente. Sono rimasta in contatto con sua moglie Veronica, che è una donna meravigliosa. Cantare al fianco di Andrea è stato un onore immenso e un’emozione che porterò sempre con me.

 

Se dovesse indicare il suo partner ideale in scena, che nomi farebbe?

Se penso al partner ideale in scena, a livello internazionale direi Michael Bublé e Josh Groban: due voci straordinarie, uno stile artistico vicino al mio e, soprattutto, persone che sanno divertirsi sul palco. Io sono molto buffa e autoironica, per me è importante che ci sia anche la risata, non solo la musica.

In Italia i miei partner da sogno sarebbero Marco Mengoni ed Elisa, ma anche Francesco Gabbani, Cesare Cremonini e Mario Biondi, che trovo tutti artisti incredibili. E adesso sto lavorando a un bellissimo progetto di duetti con Tim Wilgers, un cantante americano emergente: le nostre voci si fondono alla perfezione e siamo grandi amici; quindi, sul palco c’è sempre una sinergia speciale e tanta allegria.

 

Ci sono state occasioni in cui si è sentita una portabandiera dell’Italia, magari incontrando rappresentanti delle tante comunità di italiani all’estero?

Mamma mia, sì, tantissimi momenti speciali che mi porto nel cuore…20 anni di emozioni uniche.  Mi sono sentita davvero una portabandiera dell’Italia quando ho riempito la Carnegie Hall di New York con un tributo alla musica italiana, quando ho cantato per la Ferrari Challenge, quando ho avuto l’onore di indossare abiti e gioielli italiani a qualche evento speciale.  o quando ho portato la nostra lingua sul palco della leggendaria Grand Ole Opry di Nashville duettando con Trace Adkins, un’icona del country che ho persino fatto cantare in italiano— e ancora oggi lì ne parlano.

E poi gli inni nazionali che ho cantato davanti a Obama e Biden, il privilegio di presentare la prestigiosa Columbus Day Parade di New York per la televisione americana come unica italiana, e i riconoscimenti ricevuti negli Stati Uniti, come il titolo di “Woman of the Year” dall’Organization of Italian Charities in America, l’onorificenza dall’Order Sons of Italy in America, e il Merit of Honor dal Borough President di Queens per il mio contributo culturale.

In quei momenti l’orgoglio di essere italiana è immenso: porto nel mondo il cuore del mio Paese e sento di essere un ponte tra le mie radici e chi, lontano, continua ad amarlo…in Italia non ne sa nulla quasi nessuno….ma non mi importa piu’ di tanto io lo so e anche la ia famiglia che ne e’ molto orgogliosa…. 

 

I cantanti italiani pop realmente presenti sulle scene americane si contano sulle dita di una mano. Come  mai, secondo lei, per i nostri connazionali è così difficile il mercato americano?  

Questa è una domanda che mi fanno spesso. Credo che il motivo sia che la musica italiana, negli ultimi anni, è diventata un po’ troppo simile a quella del resto del mondo. Gli artisti italiani più conosciuti in America, come Il Volo e Andrea Bocelli, hanno mantenuto invece la melodia tipica della musica italiana, quella che nel mondo ci si aspetta e si ama.

C’è anche Laura Pausini, che magari è meno nota in Nord America ma è diventata una vera regina della musica latina. Ma ci  sono molti bravissimi artisti italiani che non conosciamo negli stati Uniti, perché’ credo che se non si capiscono le parole, per il pubblico americano è difficile appassionarsi: preferisce ascoltare musica simile, ma nella propria lingua.

Come diceva la famosa canzone Tu vuò fa’ l’americano, forse noi italiani siamo diventati un po’ troppo “americani” nella musica, perdendo quella melodia unica che ci rendeva riconoscibili nel mondo. Detto questo, la musica italiana resta bellissima: abbiamo autori e artisti bravissimi, anche se oggi meno “vendibili” negli Stati Uniti rispetto a un Domenico Modugno, che con la sua Volare vinse il primo Grammy Award della storia e che ancora oggi è amatissima e regina assoluta negli USA. 

 

 

Ha cantato in tantissimi teatri, ma certamente la Carnegie Hall deve essere stata una tappa importantissima della sua carriera. Come è stato entrare ed esibirsi in uno spazio così iconico? Ci sono altri spazi  che l’hanno particolarmente emozionata?

Cantare alla Carnegie Hall è stato un sogno che si è avverato, due volte. Entrare in quello spazio iconico, dove sono passati i più grandi della musica, ti toglie il fiato. Per me non è stato solo un concerto, ma un rito: il coronamento di tanti anni di sacrifici e di passione.

Ma non è stato l’unico luogo che mi ha emozionata profondamente. Cantare al leggendario palco della Grand Ole Opry di Nashville, tempio assoluto della musica country, è stato altrettanto speciale: lì senti di entrare a far parte della storia della musica americana.

Un altro momento che non dimenticherò mai è stato registrare ai Capitol Studios di Los Angeles, gli stessi dove hanno inciso Frank Sinatra e Nat King Cole: lì percepisci tutta la magia della storia che ti circonda.

E naturalmente registrare il mio album natalizio con la Royal Philharmonic Orchestra agli Abbey Road Studios di Londra, diretta da Robert Ziegler, è stata un’esperienza unica, quasi surreale.

Ma la verità è che ogni teatro mi ruba sempre il cuore, anche quelli più piccoli. Ogni applauso mi emoziona, perché amo profondamente il mio pubblico. Mia nonna mi ha insegnato a essere sempre grata: senza il pubblico canterei solo sotto la doccia. Lo dico spesso anche alla fine dei miei concerti, perché è la verità: noi artisti mettiamo il cuore in quello che facciamo, ma sono le persone che ci ascoltano che ci permettono di vivere la nostra arte su un palcoscenico. Devo tutto a loro. 

 

Il mondo dello spettacolo è un obiettivo sognato da tanti giovani. Che consigli si sente di dare a chi cerca di intraprendere questa carriera?

Il mondo dello spettacolo sembra un sogno scintillante, ma la realtà è molto diversa. È un percorso bellissimo, ma anche durissimo, fatto di sacrifici, rinunce e momenti di grande solitudine. Quindi il mio consiglio è: intraprenderlo solo se la passione è più forte di tutto, più grande persino del desiderio di diventare famosi o ricchi.

Se si sceglie questa strada solo per la fama o per i riflettori, meglio fare altro. Ma se dentro di te senti che non puoi vivere senza musica o senza arte, allora sì: preparati a lottare, a rialzarti mille volte e a inseguire i tuoi sogni con devozione e coraggio.

 

 

Lei ha raccontato di aver attraversato dei momenti fisici non facili. Quanto è stata importante  la musica per uscire dalla notte della malattia? La musica può essere una medicina?

Sì, ho attraversato momenti fisici molto difficili, quasi perso la vita e ottenuto una seconda opportunità’ di vivere, e posso dire senza esitazione che la musica è stata la mia medicina più grande. Mi ha dato la forza di guardare avanti anche nei giorni più bui, quando sembrava impossibile. Ma non è stata solo la musica: sono stati anche i miei fan, la mia “famiglia allargata”, che con i loro messaggi, il loro affetto e la loro presenza costante mi hanno dato un’energia speciale.

Ricordo che dopo la malattia, quando finalmente tornai a esibirmi, tra il pubblico c’erano anche i miei medici. Vederli lì, emozionati e fieri, è stato commovente: come se la musica avesse chiuso il cerchio, restituendomi alla vita e portandomi di nuovo sul palcoscenico.

Quell’esperienza mi ha profondamente cambiata. Mi ha resa un’artista più sincera, più intensa, più consapevole di quanto sia prezioso ogni respiro, ogni nota, ogni emozione condivisa con chi ascolta. Oggi so che cantare non è solo un mestiere, ma una missione: donare un po’ di luce anche quando si viene dall’ombra.

 

Anche la cucina è un suo talento, tanto che spesso è ospite di trasmissioni televisive e regala al pubblico le sue ricette. Quanto per un artista è importante la convivialità? lei tende a socializzare con i suoi musicisti prima o dopo  lo spettacolo  o ritiene invece importante un lavoro di concentrazione e preferisce vivere quei momenti in solitudine? 

La cucina è una delle mie grandi passioni, perché per me cucinare significa prendersi cura degli altri, condividere un pezzo di sé. La convivialità è fondamentale, e credo che sia lo stesso anche nella musica: il palco è un luogo di condivisione, un momento in cui si crea un legame speciale con chi ti ascolta.

Con i miei musicisti capita spesso di vivere momenti conviviali, prima o dopo lo spettacolo. A volte ceniamo insieme, altre volte brindiamo dopo lo show, perché la musica crea legami fortissimi e diventa quasi una famiglia. Però ci sono anche momenti in cui sento il bisogno di silenzio e concentrazione: poco prima di salire sul palco, ad esempio, mi piace raccogliermi, quasi come un rituale personale per entrare nello stato d’animo giusto.

Quindi direi che per me è un equilibrio: convivialità e condivisione, ma anche momenti di solitudine necessari a trasformare le emozioni in musica.

 

Ultimamente lei si sta prodigando per mantenere alta l’immagine dell’Italia in America, e per valorizzare  la sua zona d’origine, anche promuovendo la cucina e dei  tour sul territorio. Ci parla di questa interessantissima idea?

Grazie, sì, è un progetto che mi sta particolarmente a cuore. Con la mia agenzia Italymood e con il progetto BEYOND stiamo lavorando per creare concerti e documentari dedicati al territorio italiano, partendo dal Veneto e dal Friuli-Venezia Giulia per poi allargarsi ad altre regioni.

L’obiettivo è promuovere un turismo lento fatto di viaggiatori rispettosi, curiosi e innamorati dell’Italia, che non consumino i luoghi ma li valorizzino, portandoli a scoprire borghi, tradizioni, artigianato, cucina e storie autentiche. Vogliamo farlo attraverso la musica, creando eventi annuali che diventino appuntamenti fissi capaci di attrarre pubblico internazionale e di restituire valore al territorio.

Un altro aspetto fondamentale è valorizzare il Made in Italy: farlo conoscere e apprezzare nel mondo, ma anche invitare il pubblico a venire a vederlo e viverlo nei luoghi dove nasce, tra le persone e le storie che lo rendono unico.

Grazie alla PBS, la televisione pubblica americana con cui ho già collaborato, vogliamo portare in milioni di case non solo i concerti, ma anche documentari che raccontino l’Italia più vera. Per me è un sogno poter unire le due cose che amo di più: la musica e l’Italia.

 

Da qualche anno lei conduce anche programmi televisivi. Dimostrandosi talento a tutto tondo e grande versatilità. Cosa farà Giada Valenti da grande? Diventerà la versione statunitense della Carrà?

Io da grande spero solo di continuare a fare ciò che amo, ovunque nel mondo. La musica resterà sempre il fulcro della mia vita, perché per me inseguire la felicità significa inseguire la musica. Un po’ come nella favola di Pollicino: la musica sono i miei sassolini, quelli che mi guidano e mi riportano sempre a me stessa.

La nuova Carrà? Raffaella era un mito assoluto: elegante, gentile, simbolo di una televisione dove si intratteneva con talento e garbo. Se qualcuno vedesse in me una “nuova Carrà” in futuro,  lo prenderei come un grande complimento… 

 

 

Qual è il suo rapporto con  recensioni: le legge o le evita ? 

Sì, le recensioni le leggo, anche se per fortuna non ho mai ricevuto vere stroncature. Una volta un critico scrisse un pezzo volutamente ambiguo, ma i miei fan lo interpretarono come positivo e lo condivisero sui social. Alla fine credo che la recensione più vera resti sempre quella del pubblico: l’applauso e l’emozione in sala.

 

Cosa le piacerebbe vedere scritto di lei e cosa le dà più fastidio veder pubblicato?

Mi piacerebbe che si scrivesse di me che con la mia voce porto emozioni e un po’ d’Italia nel cuore della gente. Che sono umile e gentile con tutti. Una delle cose di cui sono piu’ orgogliosa e’ la mia educazione e il rispetto per gli altri che mi e’ stato insegnato con l’esempio dalla mia famiglia.  Mi dà fastidio, invece, quando per noi donne si parla solo di aspetto fisico, età o relazioni, dimenticando che dietro c’è sempre lavoro, passione e sacrificio.

 

Quali sono i prossimi impegni americani?

Ottobre sarà un mese intensissimo. Ai primi di Ottobre volero’ a New York dove, avrò l’onore di presentare ancora una volta la Columbus Day Parade in diretta su ABC7: tre ore di trasmissione dal tappeto rosso sulla Quinta Strada, la più grande celebrazione della cultura italiana in America, seguita da milioni di spettatori.

Subito dopo volerò a Las Vegas per apparizioni in radio e televisione dedicate al mio concerto del 31 ottobre al Freedom Hall Theatre, con lo spettacolo The Italian Heart in American Music.

E, fra tutti questi impegni, ci sarà anche una settimana a Nashville per entrare in studio e terminare le registrazioni con Tim Wilgers per il progetto BEYOND, che unisce musica e documentari per promuovere l’Italia, i suoi territori e il Made in Italy nel mondo.

E quando sono a Nashville, naturalmente non mancherà un passaggio alla leggendaria Grand Ole Opry: non so mai cosa mi aspetta lì, ma ogni volta è un’esperienza speciale.

 

 

Quando e dove potremmo ascoltarla in Italia?

In Italia mi potrete ascoltare il 26 settembre 2025 all’Antico Teatro Arrigoni di San Vito al Tagliamento, con lo spettacolo Il Cuore Italiano della Musica Americana, accompagnata da straordinari musicisti come Rudy Fantin, Paolo Mazzoleni, Roberto Colussi e Simone Gerardo. Sarà per me un momento davvero speciale, perché il teatro si trova a pochi chilometri da casa: ci saranno la mia mamma e il mio papà in platea, tanti amici e parenti, alcuni fan che saranno in Italia per uno dei miei viaggi alla scoperta del nostro territorio, altri che verranno solo per il concerto… e spero tanti nuovi amici e futuri fan che ancora non mi conoscono.

Il 15 novembre 2025 sarò invece al prestigioso Teatro Niccolini di Firenze. Inoltre, mi è stato proposto e stiamo preparando un evento natalizio molto speciale, che coinvolgerà grandi musicisti del territorio. Sarà un’occasione unica per condividere con il pubblico italiano tutta la magia del Natale, con lo spettacolo che per oltre dieci anni ho portato nei teatri degli Stati Uniti.

E per il prossimo anno ci sono già in cantiere tanti nuovi progetti, anche in Italia… non vedo l’ora di svelarvi tutte le sorprese!

 

Infine, ringraziando per la disponibilità e la cortesia, quali i suoi sogni?

Grazie davvero di cuore a lei carissimo Gianluca, per questa bellissima intervista e per avermi “scovata”: in fondo, in Italia non mi conosce quasi nessuno, e tu sei stato bravo a trovarmi e a voler raccontare la mia storia.

I sogni per me sono come stelle: alcuni brillano vicini, altri restano lontani, ma tutti illuminano il cammino. Come diceva Walt Disney: “All our dreams can come true, if we have the courage to pursue them.” E senza sogni, credo, sarebbe come vivere senza speranza.

Tra i miei, ce ne sono di grandi: scrivere e cantare una canzone per un film e magari vincere un Oscar, recitare in un film, salire sul palco di Sanremo, cantare l’Inno Nazionale Italiano nella mia terra in presenza del nostro Presidente, e soprattutto realizzare appieno il mio progetto di musica e territorio per la televisione americana, perché il mio sogno è che diventi una tradizione annuale capace di raccontare e promuovere l’Italia autentica nel mondo.

E poi c’è un altro sogno che porto sempre con me: continuare a conoscere e collaborare con persone meravigliose, perché sono gli incontri veri a dare senso al nostro viaggio.

Forse sembrano immensi, ma i sogni – come la gentilezza e la generosità – non hanno misura. Sono l’essenza stessa della vita, e io continuerò sempre a inseguirli, con la musica come bussola e con l’Italia nel cuore.

 

 

Logoteatroterapia

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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