Martedì, 08 Ottobre 2024
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Parliamo di Stand up comedy, ma non parliamone “a braccio”

Qualche settimana fa mi sono imbattuto, consapevolmente, in uno spettacolo di stand up comedy tutto made in Italy. Il teatro era il “Manhattan” di Monti, un gioiellino per chi è cresciuto a pane, microfono e mattonato rosso alle spalle, illuminato da un singolo “occhio di bue” che ti da in pasto al pubblico curioso e sempre un po’ scettico. Lei, Maria Beatrice Alonzi, ha portato una ventata di sfacciata originalità che ha acceso in me la curiosità di approfondire e il gusto di capirne di più. Il suo “Stand up baby” era veloce e frizzante, ironico e diretto, come un treno ad alta velocità che non conosce ritardi e rallentamenti: per questo è così poco italiano.

“Stand up comedy è quando un comico sale sul palco e parla delle sue esperienze personali. È una forma di performance più anglosassone che italiana. La tradizione della Commedia dell’arte italiana ci ha sempre fatto prediligere i personaggi e il tormentone”. Così, nel 2014, il romano Edoardo Ferrario, uno dei più noti stand up comedian italiani, spiegava in maniera lineare questo modo di fare teatro.

Netflix

Cinque anni dopo, Netflix decide di trasmettere 3 spettacoli della “nuova Stand up comedy italiana” tra cui lo spettacolo Temi caldi  proprio di Ferrario. La location è la Santeria di Milano, uno dei locali più attenti alle nuove tendenze e con un occhio vigile sui nuovi talenti. Milano d’altronde è da sempre la porta italiana sull’Europa e rappresenta l’incubatrice ideale per le nuove correnti che, storicamente, in pochi anni cambiano il modo di vivere degli italiani: dai fastfood al sushi alle 18, dal craxismo al berlusconismo, dalla fabbrichetta alle startup e dal teatro innovatore alla Jannacci-Gaber-Fo all’esplosione dell’improvvisazione, appunto.

Ok, Netflix, il gigante dello streaming online, è arrivato dagli USA con il fare di chi porta la libertà nel paese oppresso dai vari Colorado e Made in Sud, gemelli un po’ diversi dei vari Zelig e Mai dire Gol. Lo zio d’America torna dai fratelli italiani, che a casa hanno ancora appeso il ritratto di Edoardo de Filippo e di Massimo Troisi e, guardandoli con fare ironico esclama: «C'mon guys, remove the portrait of your death kid, let's refresh this wailing wall!».

Eppure guardando il panorama mainstream italiano, sembra che qualcosa si scontri con la nuova idea di commedia. Se i nuovi stand up comedian sono portati alla ribalta da una piattaforma “diversa” qual è Netflix, vuol dire che in qualche modo ancora non siamo del tutto pronti a questo nuovo modo di far ridere?

Se i Pio e Amedeo visti a Sanremo rappresentano ciò che di più originale e divertente attualmente è stato dato in pasto alle grandi platee, se una Virginia Raffaele e un Bisio sono sembrati ingessati all’interno del plexiglass di mamma Rai e se il nuovo Colorado sembra avere lo stesso potenziale comico di un 50enne su Facebook, allora è anche giusto che la nuova chiave comica passi per i canali non convenzionali. D’altronde la stand up comedy non è mai stata convenzionale.

Ma il pubblico è pronto?

La domanda a mio avviso, diventa quindi un’altra. Se i Ferrario, i Montanini, i Raimondo, i De Carlo (vedasi Satiriasi) conquistano le platee milanesi e le Maria Beatrice Alonzi e le Michela Giraud seguono il filo tracciato da Velia Lalli, vuol dire che un corposo gruppo di new comedians è pronto, formato e preparato. Ma del pubblico italiano, potremmo dire lo stesso? Ok, i pienoni alla Santeria o le serate vis-a-vis romane potrebbero far intendere di sì. La benevolenza con cui vengono accolti dai giovani studenti o i dai giovani trentenni anche. Eppure qualcosa ancora manca.

Parliamoci chiaro: la stand up comedy è aggressiva, sagace, tutta di getto e politicamente scorretta. La stand up comedy è un fulmine che si abbatte sui preconcetti e sulla risata costruita in laboratorio, oltre che sulla battuta meccanica e artificiosa fatta a regola d’arte (e farla bene oggi non è più così scontato). Si accapiglia con i luoghi comuni e si scaglia contro l’ipocrisia degli argomenti intoccabili e intrattabili. A destra arrivano battute sugli omosessuali, a sinistra frecciatine ironiche sulle razze, frontalmente intanto dalla cartucciera vengono caricate freddure sui fallimenti personali, sulla psiche umana e sul muro di pregiudizi costruito in ognuno di noi. Si scherza su tutto, si parla di tutto e si ride di tutto: un ritorno alla catarsi greca con un rinnovato gusto della scorrettezza comica.

In clima di sbarchi polemici, di giornate per la famiglia e di sfilate NoChoice, di dibattiti sul climate change e di bollettini dal fronte Torre Maura, ci sentiamo davvero pronti ad essere i Rami, i Gaia e i Simone della commedia italiana? Siamo pronti ad affrontare le barriere mentali ed educative che per secoli hanno caratterizzato il nostro “italians do it better”? Se un Montanini accusato di blasfemia fa un po’ venire in mente (senza azzardare confronti di arte e merito, ovviamente) l’accusa di vilipendio  religioso che colpì La Ricotta di Pasolini (1963…) forse c’è bisogno ancora di rifletterci un po’ su…di noi.

Insomma, il popolo italiano, spesso definitosi autoironico e che da millenni ha riso, forse inconsciamente, di se stesso rispecchiandosi all’interno di film, opere e rappresentazioni è pronto a questo nuovo step della risata?

Ho provato a chiederlo ad Edoardo Ferrario, uno dei protagonisti della stand up comedy che si è soffermato, con me, in interessanti riflessioni, partendo dalla sua esperienza, dalla sua nascita artistica, addentrandosi nella risata contemporanea:

 

Sei uno dei più brillanti stand up comedian italiani del momento, ma come è nata l’idea di cimentarsi in questo particolare tipo di commedia, come nasce l’Edoardo Ferrario comico?

Non ti nascondo che ho sempre voluto fare il comico fin da bambino. Sono cresciuto davanti ai programmi di Serena Dandini e della Gialappas’ ascoltando un linguaggio comico che è stato poi il mio maestro. In seguito, superata la fase in cui ero quello che imitava i professori in classe al liceo, quando ho dovuto decidere cosa volessi fare da grande, mi sono iscritto ad una scuola di scrittura e ho iniziato ad elaborare piccoli semplici testi da portare sul palco per iniziare a prendere confidenza con il pubblico.
Quindi sono passato alla scrittura di uno spettacolo di un’ora che si avvicinava già molto allo stile della stand up comedy. Avevo 20 anni…

Perché la stand up comedy? Considera che in tv non riuscivo, allora, a trovare nulla che mi piacesse, che mi facesse davvero ridere a livello di commedia. Anche a voler prendere spunto non riuscivo a trovare nessun comico che mi rappresentasse in quanto non si faceva altro che parlare di suocere di cellulari e uscivano i classici tormentoni del “aò sti cosi non funzioneno era meglio prima quando…”, quel genere di gag insomma. In più si era appena diffuso internet e grazie a youtube ho scoperto la stand up comedy americana: per me è stata la rivoluzione.

Ho sempre avuto una grande passione per i personaggi comici messa in scena dai grandi e ho sempre amato le caratterizzazioni di Guzzanti e Verdone. Così ho provato ad inserire, nei miei spettacoli, dei personaggi provando anche a fare scene con costumi e musiche, con un linguaggio un po’ più teatrale. Ogni volta però dovevo confrontarmi con imprevisti o cambi che magari andavano a contorcere un po’ il messaggio e così ho deciso di  svestirmi di quei panni e ho pensato di recitare senza alcun tipo di suppellettile o abito di scena. Ecco, una cosa che è nata come esigenza artistica è oggi un linguaggio con cui mi trovo a mio agio, un linguaggio che riesco a trasmettere al meglio.

Uno spettacolo, insomma, dove gli imprevisti fanno parte dell’opera?

Sì, assolutamente. Ma io infatti ormai adoro gli imprevisti in scena! Ho avuto la fortuna di esibirmi in posti molto grandi, dal teatro Parenti di Milano al Brancaccio di Roma, ma mi diverto ancora a fare serate nei piccoli comedy club dove il pubblico è lì sotto che respira e ti parla e questa è buona parte della stand up comedy: l’improvvisazione, l’agire sul momento, l’abbattimento della quarta parete. Ecco anche l’imprevisto, che fa parte dell’improvvisazione, è la dimensione ideale della stand up comedy e per questo continuo ad amarla.

A che punto siamo arrivati con la risata in Italia?

C’è ancora una larghissima fetta di comicità nazionalpopolare che si rifà a meccanismi antichi. In televisione continuano a proliferare programmi con moltissimi comici che si alternano, uno dietro l’altro, con sketch da 30 secondi con parrucche, costumi etc. Ecco non metto in dubbio il valore di quello stile che è sempre esistito, ma la qualità che ho notato è piuttosto bassa e questo mi dispiace. Si da molto più risalto al costume piuttosto che alle battute.

Detto ciò penso comunque che sia in atto una specie di rivoluzione silenziosa dettata dal linguaggio che cambia. La stand up comedy è il linguaggio più contemporaneo che esista nella comicità oggi a livello mondiale. Se tu pensi ad un comico, ad esempio, non pensi a qualcuno che fa gli sketch, il pensiero ti va ad uno stand up comedian che sul palco, con il suo microfono parla da solo per un’ora di sé, della sua esperienza di vita e non fa il personaggio con il tormentone. Mi è capitato per esempio di parlare con molti ragazzi di 18-20 anni e quando ho chiesto loro chi fosse il comico preferito mi hanno risposto Luis C.K. e Jim Jefferies che sono poi tutti gli americani che piacciono anche a me. Perché? La risposta è semplice: se hai oggi 18 anni sei cresciuto con Netflix e non con i programmi di cabaret classico su Mediaset etc. In questo senso i più giovani stanno abbracciando il linguaggio della stand up comedy che è nuovo.

 Nella comicità il linguaggio è ovviamente la chiave e cambia: se in Italia abbiamo avuto per anni sempre lo stesso linguaggio del tormentone a livello televisivo, oggi è abbastanza naturale che un giovane si guardi attorno, guardi oltre e rivolga il suo interesse verso la stand up comedy. D’altronde l’evoluzione della comicità è un discorso di linguaggio che cambia come in tutte le arti: in America negli anni ’20 andava di moda lo swing, poi negli anni ’40 arrivò il be-bop. Ecco, era sempre musica jazz ma il linguaggio era diverso. Questo succede anche con la comicità…seppur in Italia, effettivamente, ce ne accorgiamo sempre con qualche anno di ritardo.

Sei sbarcato su Netflix, che è un po’ la vetrina del nuovo, insieme a De Carlo e Raimondo: è un segnale che qualcosa sta cambiando a livello televisivo?

Lo spero proprio e spero che smuova un po’ le acque. Netflix d’altronde non segue le mode ma le crea, è una piattaforma rivoluzionaria che ha cambiato la fruizione dei contenuti nel mondo. Spero che l’innovazione portata da Netflix contagi anche la tv italiana che ha bisogno di un linguaggio che incontri i giovani. Quello che oggi ti offrono spesso sembra sempre diretto ad una fascia anziana, in tv sembra che tutto parli a quel tipo di target. La tv dovrebbe ripensare un po’ a questo: per mere ragioni anagrafiche, presto o tardi quel pubblico smetterà di esistere.

Non ti nego che l’idea di questo articolo è anche nata guardando cosa stesse offrendo di nuovo la tv in questo momento…

Cioè nulla? Due-tre programmi che hanno comunque un sapore ancora molto antico…

Il pubblico Italiano, quindi, è pronto per questo genere di commedia?

Io vedo l’affluenza ai nostri spettacoli dal vivo e ti dico che sì, lo vedo pronto! Certo poi c’è un discorso anagrafico da affrontare: se vai in una piazza con l’idea di esibirti con una stand up comedy, purtroppo è una musica che alcuni non hanno mai sentito ed è difficile che la inizino a ballare. Il pubblico più conservatore forse ancora no, ma fortunatamente stanno arrivando giovani che non vedevano l’ora che la stand up comedy si confermasse anche in Italia.

Anche in questo caso è un discorso di linguaggio: se si parla la stessa lingua e lo stesso codice di chi vuole ascoltarti allora troverai chi si diverte e chi ride. In fondo le persone vogliono ridere, c’è sempre questa esigenza. Noi comici dobbiamo farci meno “pippe mentali”, meno problemi: alla fine si tratta solo di essere originali e contemporanei, è semplicemente questo.

Poi ovviamente c’è anche un discorso di luoghi. Il cabaret nasce dall’avanspettacolo per poi svilupparsi nelle piazze dove vi è l’esigenza di dover far ridere tutti: devi intrattenere un pubblico che non ha idea di chi tu sia e la tua comicità deve essere necessariamente più larga possibile. La stand up comedy invece nasce nei comedy club dove il pubblico sceglie di venirti a vedere. Gli spettatori sanno cosa vengono a vedere e questo ti permette di avere un materiale più ricercato in quanto è il pubblico che si aspetta determinate cose dal comico. Ed è fondamentale questa cosa: è lì che si vede il cambio di passo decisivo nell’apprezzamento del pubblico.

Quindi c’è potenziale in questo pubblico...

Certo, assolutamente. Ma anche per quanto riguarda i temi: ormai il politicamente corretto e scorretto non è più così un problema. Certo, in questo periodo particolare gli italiani si offendono facilmente: essere offesi è un po’ un state of mind, un modo di vivere e di mostrarsi. Però non vi è più lo scandalizzarsi nel sentire un certo tipo di battute se queste, ovviamente, sono ben fatte.

Io non amo la satira irriverente ad ogni costo che però non ti porta a riflettere e non crea pensiero sul contenuto. Anche su questo bisogna abbattere l’equivoco che si è creato intorno alla stand up comedy: essa non è volgare per forza e lo stand up comedian non è per forza cattivo, non è così. Siamo magari stati un po’ suggestionati da alcuni aspetti tipici di quella americana, ma anche in quei casi è limitativo definirla con una sola caratteristica.

Per concludere, dopo la Santeria a Milano e dopo questo salto televisivo planetario, a Roma torni? Quali e dove sono le prossime date dei tuoi monologhi?

Ma certo che torno! A Roma sarò il 6 maggio al Brancaccio con “Diamoci un tono” che avevo già portato a maggio e ottobre scorso: sarà in una versione rivisitata, una sorta di “il meglio di…”, ma con molte novità.

Prima però sarò a Firenze, il 3 maggio al Puccini. Poi il 16 maggio a Genova al Teatro della Tosse e, infine il 30 maggio a Milano al Teatro Franco Parenti…insomma maggio si prospetta un mese alquanto pieno!

 

 

Federico Cirillo

12 aprile 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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