Domenica, 28 Aprile 2024
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Un buon 'L'importanza di chiamarsi Ernesto' al teatro Sala Umberto

Recensione de L'importanza di chiamarsi Ernesto in scena al Teatro Sala Umberto dal 19 al 24 febbraio 2019

 

Arredamento in chiaro stile anni sessanta, immagini che richiamano la pop art sullo sfondo, completi maschili a quadri dai colori accesi, abiti femminili eccentrici, movimenti coordinati e ritmati con movenze di danza: è questa la cifra delle scelte registiche dell'adattamento di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia intese ad esaltare lo spirito trasgressivo, provocatorio e anticonformista della commedia di Oscar Wilde.

I colori vivaci, l'esuberanza dei costumi di scena e la recitazione ritmata, sono il mezzo espressivo di una drammaturgia che, pur risalendo al 1895, è di una straordinaria attualità per il suo attacco all'ipocrisia a al perbenismo della società inglese dell'Ottocento. Le vicende narrate risalgono infatti all'età vittoriana, in cui i protagonisti sono due amici compagni di avventure, due scavezzacolli, Ernest Worthing e Algernon Moncrieff. Ernest, il cui vero nome è John, è innamorato di Gwendolen, ma la madre di lei, Lady Bracknell si oppone al loro matrimonio perchè Ernest/John è un trovatello e ha acquistato il titolo nobiliare. A sua volta Algernon si fingerà Ernest, seconda identità inventata di John, per poter stare con Cecily, nipote del suo amico che le fa da tutor. La genialità di Wilde si esprime in una serie di equivoci e di situazioni paradossali ed esilaranti che si giocano sulla doppia identità dei due finti Ernest e sul significato del nome Ernest che ha la stessa pronuncia dell'aggettivo earnest che in inglese vuol dire franco, leale, fedele. Entrambe le donne, non vogliono stare con un uomo che non si chiami Ernest, che in realtà è il finto nome dei loro amati... Come fare a dipanare quindi l'intricata matassa? Solo alla fine si sveleranno le vere identità dei due Ernest e non mancherà il lieto fine che riporterà alla sua vera origine John che potrà poi sposare Gwendolen. 

La regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia si mantiene fedele ai dialoghi originari, conservando la suddivisione in tre atti. Il linguaggio, l'ironia, la provocatorietà, il sarcasmo della scrittura dell'opera conservano la loro potenza comunicativa, squarciando il velo della rispettibilità sociale e dell'ipocrisia della società classista e perbenista dell'Inghilterra vittoriana. Il pubblico in sala si mostra partecipe e divertito di fronte alle esilaranti e geniali trovate della commedia, come ad esempio quella del Bunburysmo, ovvero l'esistenza di una doppia vita in cui rifugiarsi per sfuggire ai doveri dell'etichetta sociale, inventando amici invalidi a cui prestare soccorso nei momenti meno probabili (come nel caso di Algernon) o di un fratello scapestrato e pieno di problemi da aiutare come scusa per evadere dalla noiosa e moralmente ineccepibile vita di campagna (come nel caso di John).

La scelta dell'eccentricità e del movimento ritmato e danzato conferisce dinamicità e leggerezza alla rappresentazione, anche se a tratti, rischia di caratterizzare personaggi ai limiti della caricatura, in particolar modo nel caso di Algernon (Riccardo Buffonini) in cui il corpo snodato ed elastico gestisce prevalentemente la comunicazione prima delle parole. Stesso stile recitativo per Ida Marinelli (Lady Bracknell), Giuseppe Lanino (John Worthing), Elena Russo (Gwendolen), Camilla Violante Sheller (Cecily), che in alcuni passaggi si avvicinano a delle stereotipie ma le cui capacità attoriali restano comunque indiscusse. Ci chiediamo però se questo manierismo corporeo esasperato possa essere il corrispettivo esteriore di un atteggiamento interiore e di un comportamento morale volto al formalismo e allo stereotipo tipico del periodo storico in questione, per cui potrebbe risultare un espediente della regia per sottolineare ulteriormente questi aspetti.

 

Mena Zarrelli

24 febbraio 2019

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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