Lunedì, 17 Novembre 2025
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“L’importanza di chiamarsi Ernesto” al Sala Umberto: Gleijeses e Poli restituiscono Wilde con eleganza e maestria

Recensione dello spettacolo L’importanza di chiamarsi Ernesto in scena al teatro Sala Umberto di Roma dal 21 ottobre al 2 novembre 2025

 

Se c'è un tipo di ironia che attraversa i secoli e non invecchia mai, è quella di Oscar Wilde. L'importanza di chiamarsi Ernesto, tornato in scena al Teatro Sala Umberto di Roma per la regia di Geppy Gleijeses, è uno spettacolo che ancora funziona, diverte e scorre con fluidità. Quest’opera non rappresenta solo una macchina comica fatta di equivoci, false identità e battute fulminanti, è un vero e proprio testo sovversivo scritto da chi, della doppia identità, aveva fatto esperienza esistenziale prima ancora che letteraria. Wilde, infatti, compose questa commedia mentre viveva la sua relazione clandestina con Lord Alfred Douglas: anche lui indossava una maschera, quella di rispettabile uomo di mondo, per sopravvivere in una società che lo avrebbe distrutto, come infatti accadde. Dall’apparente leggerezza del testo si evince una carica eversiva che non si limita a deridere le convenzioni vittoriane, ma tocca questioni più profonde quali l'impossibilità di essere sé stessi, la necessità della menzogna per esistere socialmente, il conformismo come gabbia esistenziale. 

Gleijeses alla regia riesce a riproporre la commedia con tale sicurezza da restituire al pubblico il testo wildiano con rispetto, intelligenza e godibilità. La direzione registica è ben delineata fin dall’inizio: si opta per la chiarezza e il rispetto della trama originale, e in questo Gleijeses riesce pienamente. Lontano dalle recenti modernizzazioni, qui assistiamo a un teatro che sa mettere in scena i classici con competenza, senza snaturarli inutilmente, consentendo alla platea di goderseli in compagnia di grandi interpreti. 

Le scene, curate da Roberto Crea, riproducono con raffinata eleganza l'ambiente salottiero vittoriano senza appesantirlo troppo: la scenografia gioca intelligentemente con elementi essenziali ma eloquenti come divani damascati, tavolini per il tè, narghilè che evocano il mondo dell'alta borghesia londinese di fine Ottocento. Particolarmente riuscite le quinte laterali e i fondali, che permettono rapidi cambi di ambientazione: si passa dal salotto di Algernon alla tenuta di campagna di Jack senza inficiare il ritmo veloce e ben scandito della commedia. Luigi Ascione con le sue luci disegna con precisione gli spazi e crea le giuste atmosfere che accompagnano momenti comici e clou senza mai sovrastarli. Che dire dei costumi! Curati da Chiara Donato, rappresentano un vero gioiello: la precisione degli abiti non si limita alla mera fedeltà storica, ma serve a far intuire al pubblico il carattere di ogni personaggio dal suo stile. Il tight impeccabile di Jack, gli abiti sontuosi ma mai eccessivi di Lady Bracknell, i vestiti chiari e romantici delle due giovani innamorate: ogni dettaglio contribuisce a definire lo status sociale e il temperamento dei protagonisti.

Il cast messo insieme dal regista è superbo e ogni attore si incastra alla perfezione: il Jack Worthing di Giorgio Lupano è costruito con misura e intelligenza interpretativa. Il suo personaggio gestisce gli equivoci di cui è vittima e complice con una freschezza ingenua e una leggerezza apparente, sotto la quale si percepisce la consapevolezza di un uomo intrappolato nelle convenzioni sociali. Lupano preferisce non enfatizzare la disperazione intrinseca del personaggio per privilegiare il registro della commedia brillante: il suo Jack mostra nei momenti giusti il disagio di chi è costretto a vivere una doppia vita. Interprete di lunga esperienza, Lupano dimostra di saper gestire i tempi comici e muoversi sulla scena con naturalezza rendendo il suo protagonista piacevole, affabile, e mai eccessivo. Ed è un Jack che ben si sposa con l’Algernon di Luigi Tabita: gli scambi tra loro sono pungenti, intelligenti e precisi e i due protagonisti si compensano a vicenda. Quando Lupano è più elegante e piacevole, Tabita mostra il lato cinico e dandy di Algernon, e viceversa. Particolarmente riuscite sono anche le scene a due tra la Gwendolen di Maria Alberta Navello e la Cecily di Giulia Paoletti. Tra loro gli equivoci amorosi raggiungono il culmine e le due giovani attrici dimostrano capacità di gestire con grazia sia i momenti di tensione che quelli di complicità femminile. Il destino di tutti, però, dipende da una sola persona, Lady Bracknell. E Lucia Poli sa perfettamente cosa fare e come restituire questo personaggio iconico: lo veste ormai con una fiera sicurezza che non si traduce mai in rigidità, lo carica di comicità senza mai scadere nella caricatura, lo rende sì terribile ma anche irresistibile. La sua Lady Bracknell incarna alla perfezione la società vittoriana ossessionata dalle apparenze e dalle convenzioni, e lo fa con una tale vis comica che il pubblico ride di cuore, riconoscendo forse, tra le pieghe dell'ironia wildiana, gli stessi meccanismi sociali che sussistono ancora oggi. Anche i personaggi interpretati da Riccardo Feola, Bruno Crucitti e Gloria Sapio non restano mai all’ombra degli altri o sullo sfondo: il maggiordomo, la governante e il reverendo sono parte integrante di questo meccanismo ben oleato e che Gleijeses tratteggia con quella cura del dettaglio che distingue un lavoro fatto bene da uno fatto tanto per. Insomma, il cast è realmente affiatato, merito di un lavoro di ensemble maturo e consapevole: nessuno stona, tutti recitano bene, e il meccanismo funziona.

L'importanza di chiamarsi Ernesto in scena al Sala Umberto offre un teatro di qualità, che rende onore al testo di Wilde: il pubblico può bearsi di uno spettacolo tecnicamente ineccepibile, elegante nella forma, divertente nella sostanza. Forse si potrebbe desiderare un Wilde diverso, più disturbante, più graffiante, ma si potrebbe anche semplicemente godersi questo Wilde che funziona, diverte, e che dimostra ancora una volta perché questa sia definita "la commedia perfetta". In un panorama teatrale spesso disturbato da sperimentalismi fini a se stessi e intrattenimento banale, trovare uno spettacolo solido, ben fatto, intelligente è già di per sé un piccolo motivo di gioia. 

 

Diana Della Mura

25 ottobre 2025

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 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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