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Quarant’anni di Un sacco bello. Dietro l’eternità del film il desiderio di recuperare noi stessi
Esistono delle variabili incontrollabili nella vita e nell’arte che sfuggono dalle dita della razionale prevedibilità e, seguendo leggi proprie, accompagnano quel particolare momento verso un destino inaspettato e non del tutto intellegibile. Sono passati quarant’anni da quella rovente e desolata giornata di Ferragosto quando Roma d’estate si svuotava davvero e si avvertiva solo il suono di cicale accaldate e rumori indefiniti... lontani, provenienti da chissà dove. Era il 1980 quando nelle sale cinematografiche uscì “Un sacco Bello”, diretto da Carlo Verdone alla sua prima esperienza registica e prodotto da Sergio Leone. Enzo, Leo e Ruggero, i tre personaggi principali interpretati da Verdone stesso, nella loro apparente diversità raccontavano le rispettive storie di voli mai spiccati e mete mai raggiunte, condensando una certa comicità, derivata dalla natura stessa del personaggio, e una malinconia poetica, dove il dentro si fondeva con il fuori e la desolazione dell’esterno rifletteva la vibrazione interiore dei personaggi. Sembra ancora di sentirla riecheggiare per le strade di Roma quella melodia fischiata composta da Ennio Morricone, che racconta il senso di dispersione, solitudine ed irriquetezza che accompagnava l’episodio di Leo. Questi è un ragazzo puro, poco abituato a relazionarsi con le ragazze, che inciampa per caso in Marisol (Veronica Miriel), una turista spagnola, proprio nel momento in cui egli sta per “chiudere tutto” ed andare a Ladispoli per raggiungere l’unica donna della sua vita: la madre.
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