Una lunga intervista con il cantante per ripercorrere una carriera costellata di grandi incontri, da Kleiber alla Olivero, da Strehler a Muti.
Incontriamo oggi Claudio Giombi, basso baritono dalla lunga carriera e dal repertorio vastissimo.
Cantante di spessore vocale notevole e soprattutto di grande intensità scenica, capace di essere un magnifico Scarpia ed un acuto Don Giovanni, fa parte di quegli interpreti che negli anni d’oro del melodramma, si è distinto per affidabilità e competenza nei ruoli di carattere, figure molte volte determinanti per la narrazione drammaturgica, con parti spesso brevi ma tutt’altro che semplici se correttamente eseguite.
Divenne presto un vero esperto in questo ambito, tanto da essere richiesto esplicitamente da alcuni fra i più grandi Maestri del Secondo Novecento, da Kleiber a Karajan, da Gavazzeni a Muti.
Una carriera importante, che forse ha limitato la popolarità, che sicuramente sarebbe stata maggiore se avesse scelto ruoli di maggior rilievo, ma che gli ha permesso di vivere da protagonista spettacoli che sono entrati nella storia del teatro: fu Sonora accanto a Magda Olivero in ‘La Fanciulla del West’; Leporello con Cesare Siepi; Guglielmo nel ‘Così fan Tutte’ diretto da Peter Maag e con la regia di Mansouri con la Sciutti, Lisa Della Casa, Biancamaria Casoni, Paolo Montarsolo; Melitone a Parma con Corelli e con Bergonzi a Barcellona, solo per fare qualche nome.
Giombi, che passa i mesi invernali a Casa Verdi ed il periodo estivo sulla costiera triestina, è sicuramente un vero vulcano di attività, dalla scrittura alla recitazione, anche grazie a delle basi culturali solide, una sensibilità raffinata ed un senso critico ed autocritico decisamente raro.
Questa intervista si propone come una occasione un po’ sopra le righe per domande alle volte anche scomode ad un artista coerente e coraggioso, sicuramente umile e generoso, che ha scritto pagine musicali memorabili.
Cominciamo chiedendole che consigli si sente di dare ai giovani che vorrebbero diventare cantanti lirici? Quali sono secondo lei le doti principali che devono avere?
Cominciamo con la domanda più difficile, insidiosa e forse il quesito a cui ci tengo di più. Per rispondere alla domanda che forse molti si sono fatti “A cosa è servita la mia presenza su questa terra?” La mia risposta è rimasta immutata nel tempo: “Contribuire a fare il meglio, cercando di esprimerlo e farlo comprendere”. Perciò i miei anni d’insegnamento alla Scuola Civica di Milano ed ora a Casa Verdi sono stati e sono i più belli. Costruire dal nulla una vocalità o peggio correggere i difetti provocati dall’inesperienza o dal cattivo insegnamento, sono momenti di soddisfazione, ti affidano il destino di un giovane, il suo percorso artistico che tu inizi e poi spesso altri distruggono. Un consiglio, fare quello che ho fatto per riuscire, seppure con mezzi vocali modesti ed una scuola di canto incompleta.
Partire dallo studio teatrale. Oggi, più di ieri, c’e bisogno dell’interpretazione. I primi piani nelle riprese televisive spesso mettono in evidenza le insicurezze, l’immobilismo espressivo o peggio, l’imposto vocale, che non si addice al ruolo e quindi la noia dello spettatore. Registi stranieri che malapena conoscono qualche parola d’italiano, affrontano il verismo stravolgendolo o peggio cercando di far diventare veriste le opere romantiche, e viceversa. Quindi ritorno alla domanda: quali le doti principali di un cantante? Essere intelligente, opporsi a regie inappropriate, studiare il personaggio prima attraverso la recitazione del testo sulle battute musicali, ovvero declamando con il ritmo della battuta, registrandoti, solo dopo aver assimilato bene il testo accostarsi alla parte musicale, cercando di trovare i colori necessari al ruolo. Purtroppo gran parte degli studenti di canto provengono da Paesi con tradizioni e lingue incompatibili per la voce. Per commemorare il compositore, oggi, ahimè assai ingiustamente dimenticato, Ermanno Wolf-Ferrari, volli dedicargli un Saggio di Canto. Preparai tutto il primo atto in costume del ‘700 con l’opera ‘I Quattro Rusteghi’, in dialetto veneziano come la commedia di Goldoni. I soprani due giapponesi, un’americana, un tenore coreano. Conoscevano male l’italiano, figurarsi il dialetto. La mia proposta fu quella d’invitarli a Venezia una settimana. Ogni mattina ai mercati, tra la popolazione ascoltando le cadenze musicali del loro dialetto. Bene chi vuole può ascoltare una selezione di quel saggio su Youtube. Una cosa di cui vado fiero e dimostra come il canto nasce dalla parola.