L’arte, in ogni sua espressione, può raccontare un periodo storico, un sentimento, una circostanza. E per farlo non deve necessariamente essere figlia dell’attualità.
Un quadro di Hopper descrive perfettamente l’attesa di oggi, anche se è stato dipinto nei primi anni del Novecento; e probabilmente più di un lettore di Saramago ha pensato, come me, di vivere nel romanzo Cecità quando è esplosa la pandemia. Sono sicura che esempi di questo tipo si trovino anche nella musica e nel cinema. E ovviamente nel teatro.
Qualche giorno fa, persa nelle mie riflessioni, mi è tornato in mente La Gabbia, lo spettacolo andato in scena al Brancaccino e recensito per La Platea a maggio 2019. La Gabbia, scritto da Massimiliano Frateschi e diretto da Massimiliano Vado, racconta la sospensione spazio-temporale in cui vivono e di cui sono vittime i due protagonisti. Uno spazio fisicamente rappresentato da una gabbia di nylon e fili di ferro, ma inesistente, se non nella mente di Max e Pier. Uno spazio in grado di intrappolarli in un eterno presente, nel quale è difficile immaginare un futuro, così come fare pace con un passato scomodo e amaro.
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