Lunedì, 29 Maggio 2023
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Occuparsi di critica teatrale significa molte cose: avere l’opportunità di esercitare la propria capacità di giudizio, crearsi un gusto ma imparare a non fidarsi solo di quello nella valutazione, godere del privilegio di avere accesso a ciò che c’è dietro uno spettacolo. Capita, quindi, di incontrare tanti professionisti e artisti. Con alcuni di loro, nel tempo, si sviluppa una certa familiarità: così le mansioni, i ruoli, addirittura i personaggi diventano persone. Quando si è particolarmente fortunati, senza che questo infici la libertà di azione o pensiero nel rispetto del reciproco lavoro, c’è persino il rischio di diventare amici.

Tra gli altri, mi è successo con Gabriele Paupini: giovane regista, ma anche attore e traduttore, conosciuto in occasione di una sua rappresentazione - Yukonstyle - all’interno del circuito romano off di quella bolgia teatrale che è Roma. Ci siamo incrociati per caso durante spettacoli di altri, scambiati idee, consigli e suggerimenti musicali. Un rapporto intellettualmente stimolante che non si è interrotto nonostante il suo recente trasferimento in Francia. Dove tutt’ora risiede per frequentare il master Création en spectacle vivant, diretto da Laurent Berger, presso l’università Paul-Valéry Montpellier III.

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Lo spettacolo è appena terminato, c'è un momento di indecisione tra il rimanere seduti ancora per qualche istante oppure avviarsi verso l'auto, cercando di ricordare, con una certa disinvoltura e indifferenza, dove l'abbiamo posteggiata. Forse la scelta tra il rimanere e l'andare potrebbe già informare sull'impatto che ha avuto su di noi la rappresentazione teatrale stessa. Essa infatti necessita di essere rimasticata ed elaborata prima di divenire giudizio e spesso, quando c'è stato nutrimento, tale processo di assimilazione inizia implicitamente, subito dopo la chiusura del sipario. Indugiare sulla poltrona a volte è espressione e metafora  di una certa densità di contenuti necessitanti di esser focalizzati, prima di poterci permettere un immediato slancio verso casa. Poter dire, o dirci, di essere rimasti soddisfatti o delusi da quel lavoro teatrale è  frutto di un processo elaborativo interiore che abbraccia le nostre aspettative, bisogni e paure, verificando al contempo se determinate promesse siano state mantenute.

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A teatro capita spesso, aspettando che il sipario si apra, di ascoltare le conversazioni altrui o di instaurarle. Mi è capitato anche la scorsa settimana. Come al solito ero in largo anticipo, mi sono accomodato ed ho cominciato ad aspettare consapevole che i ritardatari di turno avrebbero diluito ulteriormente l’inizio dello spettacolo.

Per fortuna però affianco a me era seduta una giovane coppia che ben presto ha cominciato a parlare della spesa che avrebbero dovuto fare l’indomani. Yogurt, pane, carta igienica, tovaglioli… tutto molto noioso, finché il dialogo, di colpo, ha accesso il mio interesse. Lei, occhi sbarrati, ha detto: “No! Ci siamo dimenticati di prendere il dispositivo anti-abbandono”.

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Il 5 settembre scorso ci ha lasciato l'attore Federico Palmieri, morto suicida nella sua casa di Roma. Non vogliamo perderci in ipotesi o congetture sul perché del suo gesto ma ci vorremo limitare a fare due cose. La prima ricordarlo come creatore del teatro dei Balbuzienti, del quale era anche insegnante, e l’impegno che aveva dedicato a questa problematica. Difatti aveva scritto e prodotto numerosi spot d'informazione sulla balbuzie, ed aveva anche vinto un premio per la miglior regia nel 2016 con lo spettacolo “Balbetto quando voglio” al Festival Internazionale del Cinema Patologico. In tal modo aveva supportato molte persone che avevano questo suo stesso problema e ricordato quanto il teatro sia in grado di fare bene all'anima ed aiutare, anche fuori dal palco. 

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 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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