SalaUmberto
StagioneTeatrale 2013-2014
dal 12 Settembre 2013
Teatro e Società Srl
Maddalena Crippa
ITALIA MIA ITALIA
con musiche dal vivo
regia di Peter Stein
SalaUmberto
StagioneTeatrale 2013-2014
dal 12 Settembre 2013
Teatro e Società Srl
Maddalena Crippa
ITALIA MIA ITALIA
con musiche dal vivo
regia di Peter Stein
LA DONNA DEL MARE
di Henrik Ibsen
Regia Carlo Fineschi
dal 17 Ottobre al 03 novembre 2013
“La Platea” ha intervistato la regista Anna Piscopo, una chiacchierata ricca di spunti profondi e un omaggio sincero a Galliano Juso, produttore del film, purtroppo il suo ultimo.
Abbiamo intervistato Anna Piscopo, regista del film “Mangia”, che esordisce in una pellicola che sta diventando un piccolo caso cinematografico, una commedia grottesca e a tratti amara, sull’isolamento e sulla solitudine, trattata con stilemi contemporanei e di grande impatto visivo. La storia è quella di Maria, una giovane che cerca di uscire dall’isolamento intimo e sociale in cui si trova, tentando di percorrere la strada dell’arte, ma con scarsi risultati. Il cinema della Piscopo è dirompente e visionario, con chiari riferimenti al cinema neorealista e a quello muto (nel quale la Piscopo riconosce un grande insegnamento). Il film è girato a Catania, una città capitata “per caso”, che però ha accolto pienamente il messaggio che la regista voleva portare, città nel quale la Piscopo ha procacciato buona parte degli attori, spesso persone che vivevano ai margini, svolgendo un’azione significativa di qualificazione sociale. Un film prodotto da Galliano Juso, il suo ultimo film prima di morire e che, come la regista afferma, ha svolto un’azione di maestro e di padre.
Ci racconti la genesi del film?
Il film nasce da un monologo che avevo scritto e portato in scena, lo spettacolo era totalmente diverso dal film, l’unico spunto che abbiamo tenuto è il personaggio di Maria, che però nella piece scappava dalla provincia per venire a Roma.
L’incontro con Galliano Juso è stato fondamentale per la realizzazione del film. Come vi siete incontrati?
Conoscevo Galliano Juso di fama, lo stimavo molto anche perché sapevo che aveva prodotto Cipì e Maresco che per me sono dei miti assoluti, “Lo zio di Brooklin” è stato uno dei miei film iconici. Poi ci siamo incontrati in un bar in cui andavamo entrambe, il “Salotto 42”in piazza di Pietra a Roma che fino a qualche anno fa era frequentato da svariati artisti. A quel punto io e Galliano abbiamo riscritto la sceneggiatura, alla quale abbiamo lavorato a quattro mani, visto che lui ha seguito tutto il processo creativo accompagnandomi assiduamente. L’idea era quella di fare una commedia urbana, non volevamo fare un adattamento dello spettacolo, ma costruire una “rappresentazione corale” con più personaggi che seguissero un certo tipo di tipologia.
Blas Roca Rey è un attore di successo, popolare in televisione, apprezzato sia al cinema che a teatro. Attualmente porta in tournée ‘Vincent Van Gogh- Le lettere a Theo’ e‘Calcoli’ e noi lo abbiamo incontrato proprio mentre recitava, all’interno della ricca stagione dell’ERT Friuli Venezia Giulia, questo titolo di Gianni Clementi, applauditissimo in tutte le tappe friulane. Gli abbiamo sottoposto una lunga serie di domande e con grande pazienza e disponibilità ha accettato di rispondere a tutte, affrontando le tematiche più diverse: dal lavoro ai figli, dalla carriera al Covid. Ironico, attento, sensibile, si è dimostrato innamorato del suo lavoro, ma anche cosciente di come l’Arte , che innanzitutto è un modo di essere, possa, vorremmo dire debba, essere strumento di rinascita per il nostro Paese; di come passione ed etica siano doti distintive dell’artista vero; di quanto per calcare con dignità le tavole del palcoscenico, siano importanti il sacrificio, il senso del dovere, il rispetto. Un piacere ascoltare tante risposta senza cogliere il profumo, in altri ammorbante, dell’autoreferenzialità, sentendo, invece, la passione dell’attore, l’affetto del padre, la gratitudine verso i Maestri e la responsabilità nei confronti degli allievi. Una chiacchierata, lunga e divertente, ma anche una lezione di stile.
Lei nasce in una famiglia nella quale l’arte ha da generazioni un grosso ruolo. Suo padre era lo scultore peruviano Joaquin Roca Rey, artista raffinato cui è stata dedicata una interessante antologica, ‘La forma del mito’, qualche anno fa a Roma. Come si è avvicinato al mondo del teatro?
Mio padre era un grandissimo scultore e quella mostra, che venne francamente molto bene, l'ho organizzata io stesso con mesi e mesi di duro lavoro e fatica.
Mi sono avvicinato al mondo del teatro durante un'occupazione del mio liceo a Roma. Erano gli anni della contestazione, il ’77 od il ’78. C 'erano dei corsi autogestiti sulla figura della donna nella pubblicità. Senza soffermarci troppo sui particolari, a me toccò una parte femminile, con una parrucca bionda . Feci molto ridere tutta l'Aula Magna del liceo. Ci fu uno scrosciante applauso e una sonora risata e proprio li ebbi la prima scintilla e pensai: -ma sai che non è brutto fare un lavoro in cui ti applaudono?- ed ebbi la consapevolezza che mi divertiva molto stare su un palcoscenico. Da lì decisi, l’anno dopo, a 17 anni, di fare una scuola privata di teatro dove mi preparai con molto impegno per provare poi aadentrare all'Accademia Nazionale Silvio D'Amico. E l'anno seguente effettivamente fui ammesso. Avevo 18 anni, ero uno dei più giovani del mio corso. Entrai, tra l'altro, con un'ottima posizione: quarto, quindi fu veramente un successone. Mi diplomai a 21 anni, che era più o meno l'età in cui entravano i miei colleghi, quindi sono stato molto avvantaggiato all'inizio della carriera.